Quando la fatina diventa regina. Comunicare la scienza oggi, tra social e web.

Quel video, pubblicato il 16 Luglio 2013 nel sito corriere.it, racconta con semplicità e chiarezza la storia di Ilaria Cacciotti. La ricercatrice del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Chimiche dell’Università di Roma Tor Vergata il 30 Maggio 2011 ha vinto il premio “L’Oréal Italia per le donne e la scienza” per le sue ricerche sulle micro-capsule antirigetto per il rilascio di dopamina, destinate alla lotta contro il Parkinson. Ma qui concentro la mia attenzione sul titolo che è stato associato al video di Corriere tv. Un video, a mio modo di vedere, realizzato molto bene, firmato da Alessandra Arachi (che considero un'ottima giornalista scientifica, fisica come me e autrice di uno splendido ritratto dell'unica fisica del gruppo di via Panisperna, Nella Mortara, nel libro Coriandoli nel deserto).
Ieri, 17 Luglio, la mia attenzione è stata catturata da un post nel profilo facebook pubblico di Michela Murgia: «Per il Corriere della Sera la scienziata che cura il Parkinson è "la fatina delle cellule"». Un post che non è passato inosservato, dato che pochi minuti fa aveva raccolto 200 "mi piace". Confesso che probabilmente (anzi oserei dire sicuramente) quel titolo mi sarebbe sfuggito e, peggio (o meglio, a seconda dei punti di vista), non avrei dato peso a quel termine "fatina".
Anzi, forse l'avrei considerato un ottimo titolo: in grado di catturare l'attenzione, colpendo per l'assonanza con qualche titolo di libro o di film o di una qualsivoglia altra sequenza di parole profondamente radicata in noi (o almeno in alcuni di noi), sottolineando un aspetto particolare dell'argomento trattato nell'articolo (o nel servizio) e fornendo spunti evocativi (ovvero imponendo al cervello di chi legge di soffermarsi, per un brevissimo istante, nelle ricerca di allusioni e visioni). In particolare per me la parola fatina richiama alla memoria la fata dai capelli turchini di Collodi (più quella dello sceneggiato televisivo diretto da Luigi Comencini del 1972, interpretata da Gina Lollobrigida, che quella del Pinocchio di Disney del 1940, Blue Fairy): una persona generosa e altruista, in grado di aprire le porte senza le chiavi, per certi versi buona come metafora della scienziata.
Ma dopo aver letto la sottolineatura di Michela Murgia ho considerato quel titolo poco adatto al suo scopo e immediatamente l'associazione fatina-ricercatrice è diventata insopportabile. Poco adatto al suo scopo perché come ho scritto cattura ma non spiega e non evoca. Insopportabile perché non rende giustizia a chi la ricerca la fa con sacrifici e allontana dalla realtà: come se la ricercatrice fosse dotata di bacchetta magica. La fatina poi è un personaggio femminile che non ha corrispettivo maschile (il mago è molto diverso) mentre nella ricerca, almeno idealmente, non ci sono (o non ci dovrebbero essere) distinzioni così marcate.
Questa storia mi porta poi a ripensare alcuni aspetti della comunicazione della scienza. Due in particolare: 1) per quanto si possa far bene il proprio lavoro basta una parola per vanificare tutto; 2) web e social come aiutano a diffondere le notizie altrettanto rapidamente possono portare a sottolineare alcuni aspetti facendo perdere di vista il sensoprofondo.
In fondo la potenza dei social networks è proprio questa: influenzano il mio modo di vedere le cose. E, specie in casi come questo, i social evidenziano il ruolo dei cosiddetti influencer: quelli che non guardano i testi e le immagini distrattamente, ma le osservano con attenzione, fornendo altre letture. E devo dire che anche la redazione non è stata immune da questo genere di ravvedimento: il giorno dopo la fatina delle cellule è diventata la regina delle cellule. Ma il web non perdona: la parola fatina è rimasta nell'url (http://video.corriere.it/fatina-cellule/...) e nei post di facebook associati al commento di Michela Murgia (che fino a poco fa era stato condiviso condiviso 64 volte, determinando ulteriori ramificazioni comunicative). Ma la fatina rimane anche nella cover del video e io, impietosamente - non me ne voglia Alessandra Arachi, alla quale rinnovo la mia stima - ripropongo qui sotto:


Andrea Mameli www.linguaggiomacchina.it 18 Luglio 2013

P.S. Il valore scientifico del lavoro di Ilaria Cacciotti resta intatto. Ma, nella mia costante ricerca di senso, trovo la cocente conferma di una cocente realtà (tipicamente italica): la ricerca precaria trasforma le storie di successo in tragedie professionali. L'ha spiegato la stessa ricercatrice il 10 Aprile 2013 a agoranews.it: «La borsa di studio di 15mla euro è finita un anno fa. Ora attendo un nuovo assegno. Ho anche integrato dando ripetizioni. Ma la precarietà non mi fa scappare all'estero: la qualità della ricerca da noi è alta e finché si può è giusto restare».
http://mobile.corriere.it/m/unamammaimperfetta/corrieretv/dettaglio/0/dd8f7404-ee01-11e2-98d0-98ca66d4264e

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