23 febbraio 2013

L'invasione degli Ultra-Film

Intervento pubblicato nella guida al ciclo "Il cinema di Fantascienza. Dai classici alla rivoluzione di 2001 odissea nello spazio" (Società Umanitaria, Cineteca Sarda, 2011)


L'invasione degli Ultra-Film
Andrea Mameli

Fantascienza. In futuri ipotetici, in genere distopie tecnologiche di tirannia e caos, l'autore di fantascienza spesso si sposa con l'uomo anti-stato dell'epica moderna, con l'azione e con l'avventura.
Robert McKee in Story. Substance, structure, style, and the principles of screenwriting, 1997.

L'invasione è iniziata molto tempo fa. Forse proprio con quella locomotiva a vapore che si avvicina al pubblico terrorizzato (L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat, 1896) frutto di due menti creative (Auguste e Louis Lumière). La scienza a vapore e il cinema muto, anche se non sembra, sono la vera incubatrice della cosidetta Sci-Fi.
Ma, andando ancora indietro nel tempo, notiamo che la specie Homo Sapiens ha avuto bisogno da sempre di nutrire la dimensione del fantastico e del mito, miscelando forza e bellezza, emozione e razionalità. E non è questo il nutrimento della Fantascienza? Un modo per sollevarsi dai problemi dell'oggi guardando al domani? Per fuggire dal quotidiano e evadere nell'immaginario? Certo, ma non solo: anche per capirsi meglio, per pensare a qualcosa che non abbiamo (ancora) o per tentare di conservare i sogni. Scenari in contraddizione tra loro? Certo, e a volte le contraddizioni sono tali da portare al successo una cosa e il suo opposto: la paura per il diverso, e qui sveliamo subito una delle più feconde chiavi della Sci-Fi, ma anche l'immedesimazione nell'altro. È quello che accade, per iniziare con qualche esempio, con i vampiro, nel caso di Twilight, o i mutanti di X-Men o Hellboy, in una continua riproposizione della lotta del bene contro male, del divino contro il demoniaco.
Forse, via via che la scienza soppianta il pensiero magico, giungendo a spiegare ogni cosa, l'effetto della Fantascienza non è più, o non è tanto, quello di anticipare o prevedere, quanto quello di far riprendere alle nostre menti quei percorsi che razionalmente abbiamo imparato a mettere da parte. E, come vale per la lettetura di genere, anche il cinema di fantascienza non è più (forse) una risposta alle sollecitazioni delle scoperte scientifiche quanto l'adattamento attuale all'esigenza di fantastico.
Ma in quel suo continuo sforzo, non sempre riuscito, di rappresentare il pensiero umano e di tramandarlo, di rendere in immagini la conoscenza consapevole del Sé, si nasconde tutto il fascino della Fantascienza e, ancora una volta, tutte le sue contraddizioni. Se è vero che il cinema rappresenta la sintesi delle realtà osservabili, e osservate, è anche vero che la pellicola riesce a dar vita a stravolgimenti del senso comune delle cose e a far vedere l'invisibile. E non sempre questo stravolgimento è distante dal reale, come accade nei casi in cui la spiegazione scientifica si discosta dal senso comune: la dimensione quantistica e la dimensione astronomica, o la relatività,
L’arte filmica è così diventata un potente (per alcuni il più potente) alleato della narrazione fantastica. Una rarrazione inestricabilmente connessa con la ricerca di spunti scientifici e tecnologici. Ma a volte la connessione è solo apparente. L'esempio classico di questa dimensione primordiale, di sospensione dell'incredulità, è Viaggio sulla luna (Le Voyage dans la Lune) del 1902 di Georges Mélies.
La celebre pellicola ispirata a Verne colpisce per la facilità con la quale i protagonisti affrontano il viaggio verso la Luna. E questo tratto accentua la difficoltà che allora gli uomini incontravano solo a immaginare quel viaggio come possibile. Questa considerazione ci porta a sottolinerare anche un altro aspetto: l'opera filmica classificata come Sci-Fi (le classificazioni spesso sono odiose ma in questo caso aiutano nel ragionamento) ha un impatto decisamente diverso a seconda del periodo in cui viene visionata. D'altronde, se è vero che con la tecnologia evolve anche la stessa diffusione della conoscenza scientifica, è anche vero che parallelamente evolvono le tecnche cinematografiche e il gusto degli spettatori.
Quante volte un vecchio film di fantascienza mostra, se visto alcune decine d'anni dopo la sua uscita, ingenuità e grossolanità? E quante volte le previsioni non si avverano (o non si avverano ancora)? Talvolta l'intento è stato dichiarato esplicitamente: è il caso di Viaggio allucinante
(“Fantastic Voyage”, Richard Fleischer, 1966). Il libro di James Kakalios “La fisica dei superoi” ci ricorda che all'inizio del film compare la scritta:
Questo film vi porterà in un luogo dove nessuno è mai stato prima, nessun testimone ocupare ha effettivamente visto ciò che state per vedere. Ma in questo nostro mondo, dove i viaggi sulla Luna saranno presto una realtà e dove intorno a noi accadono le cose più incredibili, un giorno, forse domani, gli eventi fantastici che state per vedere potranno accadere, e lo faranno”.
Forse è per questo che uno dei più prolifici autori di Sci-Fi, Theodore Sturgeon, dichiarava sprezzante: “Il 90 per cento della science-fiction è spazzatura, ma del resto il 90 per cento di ogni cosa esistente è spazzatura".
Ed è per questo che io parlo di invasione degli ultra-film: invasione, in quanto produzione copiosa, di film che desiderano andare oltre, ma spesso non ci riescono, o ci riescono solo a tratti.
Ma qualche capolarovo esiste. Penso a L'invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, 1956). Questo film infrange i canoni in uso fino a quel momento: non ci sono i mostri, gli alieni, le astronavi. La regia di Siegel materializza il terrore di una minaccia ancestrale, che arriva la notte, mentre si dorme. Il titolo scelto dal regista era “No sleep more” (“Non dormire più”) ma per la produzione sarebbe stato troppo. E quel grido del dottor Bennel (Kevin McCarthy): "Voi siete i prossimi! ("You're the nex!") è un urlo senza tempo. La paura dell'ignoto è esaltata al massimo in questo film diretto da Don Siegel, senza effetti speciali. E proprio questo lo rende intramontabile: a differenza delle pellicole che prima dicevamo ingenue e grossolane qui non ci sono tecniche filmiche destinate a tramontare. Vi sono però altri aspetti che cambiano: muta la percezione del significato, che si ritiene nascosto dietro la pellicola. L'invasione degli ultracorpi è stato considerato di volta in volta uno strumento di critica al comunismo e poi al fascismo. Ma Siegel aveva altro in mente, come disse lui stesso nelle ultime interviste: “Quando la pellicola fu pronta né lo sceneggiatore né io, tantomeno, pensavamo a un qualsiaasi simbolismo politico. La nostra intenzione era di attaccare una concezione della vita abulica”. Quella di Siegel è una difesa della libertà delle persone. Una difesa controcorrente, anarchica, sovversiva.
Come scrive Daniele Barbieri (autore dell'antologia “Immaginare futuri”): “il pregio della fantascienza è un altro: costringerci a pensare che possano esistere sentieri diversi, visioni pericolose, ragionamenti laterali, culture altre, alienità in noi e negli altri, infinite probabilità, ricchezze perdute, nuove umanità, soprattutto nel senso in cui Dick usa questa parola nel racconto Umano è, magari metalli urlanti e umanoidi associati.”
Alcuni registi hanno tentato di ripetere, a mio modo di vedere maldestramente, la sottilie alchimia che ha portato a creare L'invasione degli ultracorpi.
Solo nel 1988 qualcosa di simile è riuscito a John Carpenter con Essi vivono (They live). 
Liberamente ispirato al racconto del 1963 Eight O'Clock in the Morning di Radell Faraday Nelso, Essi vivono sembra riportare l'alieno al rango di nemico pubblico numero uno. Ma è tutto qui? O c'è qualcosa di più?
Questo film è stato disprezzato perché sembra un “B movie”, con tanto di lunghe scazzottate e varie ingenuità. Alla fine sembra dire esattamente quello che ci mostra: se ci lasciamo omologare saremo schiavi della civiltà dei consumi. Se invece ci destiamo, con la metafora del guardare attraverso gli occhiali svela-alieno, alla paura per gli invasori possiamo sostituire il disprezzo per la nostra stessa idiozia.
È qui che “Essi vivono” sembra cogliere l'eredità di Don Siegel: al posto del grido "Voi siete i prossimi!”, in questo caso il protagonista, l’operaio interpretato dall'ex wrestler "Rowdy" Roddy Piper, punta la pistola contro l’obiettivo della macchina da presa e pronuncia il faticido: “Ora tocca a voi!”. Ma John Carpenter secondo me aveva in tasca un doppio trucco: ha girato un film di serie A mascherato da film di serie B. E il suo intento era (anche) mettere alla prova i critici di cinema.
Ma se il cinema di fantascienza non è solo intrattenimento attenzione a non cadere dal lato opposto, come sembra fare Roberto Pinotti, sociologo e ufologo, autore del libro “Fantacinema, effetto UFO. Hollywood, la Cia e la prospettiva del contatto alieno. Storia di un complotto mediatico” (Editoriale Olimpia, 2006). L'immaginario collettivo fantascientifico, è la tesi di Pinotti, sarebbe stato costruito apposta allo scopo di prepararci all'arrivo degli extraterrestri. Messaggi subliminali organizzati dagli Usa per la più grande operazione camomilla: evitare il panico dell'incotro ravvicinato del terzo tipo.
In conclusione, lasciatemelo scrivere, cosa sarebbe stato il film di fantascienza senza il romanzo di fantascienza? Un esempio su tutti: Philip K. Dick. La straordinaria forza, la capacità visionaria, la carica sovversiva, di questo scrittore hanno regalato al cinema il nutrimento per alcuni film divenuti, nel bene e nel male, indimenticabili. In particolare, da Cacciatore di androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, 1968) è nato Blade runner (regia di Ridley Scott, 1982). Dal racconto Memoria totale Paul Verhoeven ha creato Atto di forza (“Total Recall”, 1990). Urla dallo spazio (Screamers, 1995) è basato sul racconto Modello Due (Second Variety), mentre Minority Report (Steven Spielberg, 2002) è basato sul racconto Rapporto di minoranza (The Minority Report, 1956). Ma a volte non è tutto così palese: molti elementi portano a ricondurre la sceneggiatura di The Truman Show (Peter Weir, 1998) al romanzo Tempo fuor di sesto (Time Out of Joint, 1959), ma Dick non viene mai citato nel film. Così come brandelli di ispirazioni dickiane sono rintracciabili in Apri gli occhi (Abre los ojos, Alejandro Amenàbas, 1997) e L'esercito delle 12 scimmie (Twelve Monkeys, Terry Gilliam, 1995).

Finisco con una bufala.

Il cacciatore di bufale Paolo Attivissimo ha scoperto che la presunta classifica dei peggiori film di fantascienza che parrebbe (stando a decine di articoli reperibili nel web) frutto della NASA e del Science and Entertainment Exchange, non esiste proprio. È tutta inventata. Ma vediamola lo stesso, questa classifica fantasma, perché qualcuno o qualcuna lo sforzo di redigerla deve averlo compiuto, NASA o non NASA.

Questa è la lista dei peggiori film di fantascienza, secondo il Sunday Times
  1. 2012 (2009)
  2. The Core (2003)
  3. Armageddon (1998)
  4. Volcano (1997)
  5. Chain Reaction (1996)
  6. The 6th Day (2000)
  7. What the #$*! Do We Know? (2004).
E la lista dei migliori? Eccola:
  1. Gattaca (1997)
  2. Contact (1997)
  3. Metropolis (1927)
  4. The Day the Earth Stood Still (1951)
  5. Woman in the Moon (1929)
  6. The Thing from Another World (1951)
  7. Jurassic Park (1993).

    Letture consigliate
  • Teresa Biondi, La fabbrica delle immagini. Cultura e psicologia nell'arte filmica. Edizioni Magi, 2007
  • Lawrence M. Krauss, La fisica di Star Trek. Longanesi, 1996
  • Paul A. Woods, Il pianeta delle scimmie. La guida ufficiale alla saga. Hobby & Work Publishing, 2001
  • James Kakalios, La fisica dei supereroi. Einaudi, 2005
  • Daniele Barbieri, Riccardo Mancini, Immaginare futuri. Racconti di fantascienza. La Nuova Italia, 1992
  • Il blog antibufale di Paolo Attivissimo http://disinformatico.info


Andrea Mameli si sente attratto dalla Fantascienza fin dalla più tenera età e vi sono probabilità che prosegua su questa strada. Ha una laurea in Fisica e un Master in Comunicazione della Scienza, si occupa di innovazione, sostenibilità e relazioni tra scienza e altri campi dello scibile. Affronta queste tematiche nelle collaborazioni giornalistiche e con il blog www.linguaggiomacchina.it

Alien a Cagliari il 20 Marzo 2013. Una mia riflessione sul film.

Il mio intervento per la guida del ciclo di film "Il cinema di fantascienza. Da Kubrick al digitale", pubblicata dalla Cineteca Sarda nel Febbraio 2013. 


ALIEN
Andrea Mameli

La sfida di Ridley Scott era quasi diesperata: rappresentare l'alieno e rendere credibile l'incredibile. Per raggiungere questo risultato era necessaria una storia forte e un lavoro cinematografico impeccabile. A mio parere Alien è riscito nell'intento, divenendo un punto di riferimento assoluto per il genere. E lo dimostra il fatto che, a 34 anni di distanza, il film mantiene inalterato il suo fascino. Lo dimostrano anche le innumerevoli citazioni, più o meno riuscite, senza contare i cambiamenti che questa pellicola ha di fatto imposto: non a caso c'è chi parla di un prima e un dopo Alien.
Ma quali sono gli elementi che hanno decretato questo successo? Che cos'ha di speciale questo film?
Innanzitutto Scott ha scelto il nero, respingendo l'estetica del cinema di fantascienza degli anni '70 quella delle astronavi bianchissime, stile "2001 Odissea nello spazio". E questo, insieme alla colonna sonora di Jerry Goldsmith, forma le basi su cui si sviluppa l'angoscia: riecheggiando i film di fantascienza degli anni '50 (le uova dell'alieno come i baccelli del 1956: “L'invasione degli Ultracorpi”) ma evitando le loro goffe ingenuità, Scott costruisce una meravigliosa macchina della paura. Ma dentro Alien ci sono anche altri ingredienti, come i miti classici, con quella squadra di astronauti che si trasformano in vittime sacrificali della bestia, c'è l'eroina Ripley, che tiene testa all'alieno e rischia la vita per salvare un gatto, c'è la multinazionale che vuole l'alieno per farne il prototipo di un'armai invincibile: la creatura, si scopre, era il vero obiettivo della società proprietaria del Nostromo.
In Alien c'è anche un computer di bordo, Mother, che parla e risponde, ma non è la tecnologia salvifica. Come in 2001 Odissea nello spazio, in cui HAL 9000 tradisce la fiducia umana, così in questo film il computer si rivela un nemico. Un nemico che esegue gli ordini: l'alieno va trasportato sulla Terra anche a costo di sacrificare l'equipaggio.
Poi c'è quella forma che si svela poco a poco, disegnata dall'artista svizzero Hans Ruedi Giger, e animata da Carlo Rambaldi (premiati con l'Oscar per i migliori effetti speciali nel 1980). Una forma che colpisce, con le sue forti allusioni sessuali e con quella terrificante schiera di denti. Una creatura dalla forza devastante e dotata di un acido corrosivo al posto del sangue. Un impianto simbolico formidabile che spaventa e confonde. Non a caso è l'androide dell'equipaggio, l'ufficiale scientifico Ash (Ian Holm) l'unico a elogiare il mostro: “Ancora non hai capito con cosa hai a che fare, vero? Un perfetto organismo. La sua perfezione strutturale è pari solo alla sua ostilità.”
Alien è un film che ha fatto discutere, e continua a farlo. In “Aliens R Us. Eclissi, mimetismo e società nella tetralogia di Alien” (2011) Isabella Nicky Plantamura ha scritto: “La scena più famosa e più inquietante di Alien è quella in cui Kane resta ucciso, durante il pranzo dell’equipaggio della Nostromo, dalla nascita del piccolo alieno, che esce squarciandone il torace. In questa scena si riassumono due dei temi che caratterizzano il film e, in generale, l’intera saga: la fobia dell’identità e la violazione del corpo.”

Ecco, alla fine forse anche Alien, come altri film di fantascienza, contiene più un'analisi delle paure e delle caratteristiche di noi umani che degli stessi alieni.

La proiezione di Alien è in programma il 20 Marzo 2013 alle 20 e 30
Società Umanitaria, Cineteca Sarda, viale Trieste 126, Cagliari  
(ingresso libero).

Lana grezza per assorbire petrolio in mare. Il progetto WOOLRES (Wool Recycles Eco System)

L'uovo di colombo lo dobbiamo a tre persone. La prima scintilla si accese nella mente di Luciano Donatelli, Presidente dell’Unione Industriali di Biella: utilizzare la lana per assorbire il petrolio disperso in mare. E non è un problema da poco se si pensa alle conseguenze nefaste di questo tipo di danno ambientale. Di fronte al disastro del 2010 nel Golfo del Messico, Donatelli chiese a Mauro Rossetti (a cui devo molte delle informazioni che ho raccolto, Direttore Associazione Tessile e Salute di Biella) di verificare le possibilità di successo di una simile idea. I risultati soddisfacenti spinsero Donatelli e Rossetti a coinvolgere Mario Ploner (Tecnomeccanica Biellese) per progettare un sistema in grado di recuperare il petrolio sversato in acqua. Così è nato il progetto Woolres.
Viene sfruttata la proprietà della lana grezza di assorbire gli olii in quantità 10 volte superiore al proprio peso. La lana appena tosata è ricca di lanolina e altre impurità vegetali e minerali che la rendono estremamente coesa e idrorepellente ma lipofila (ovvero in grado di assorbire i grassi). In questo modo si possono recuperare 950 tonnellate di petrolio (6.350 barili) con 10 tonnellate di lana (la quale può essere utilizzata per almeno una decina di volte).
La nave progettata per il deposito del brevetto ha una capacità di serbatoio pari a un milione di litri e una stiva per lana per 10.000 kg. Considerando la velocità del natante (5 nodi) e la sua larghezza (circa 10 metri), la superficie coperta in un’ora sarà pari a circa un decimo di chilometro quadrato. Pertanto in 10 ore si potrebbe intervenire su di un chilometro quadrato. Se consideriamo uno spessore di 1 mm di idrocarburo sulla superficie del mare (un litro al metro quadrato) in un chilometro quadrato ci potrebbe essere un milione di litri da recuperare. Pertanto in 10 ore di lavoro con 10.000 kg di lana si potrebbero, dunque, raccogliere un milione di litri di petrolio.
Per la lana sucida ordinaria (questo è il nome esatto della materia prima) possiamo ipotizzare un euro a kg,
L’investimento per dotare un’imbarcazione adeguata con le apparecchiature progettate sarà dell’ordine di un milione di euro.
    Caratteristiche della nave:
  • utilizza 10.000 kg di lana (10.000 €)
  • raccoglie in 10 ore 6.350 barili di petrolio
  • con 6.350 barili a 80 € al barile si ottiene 500.000 €
  • pertanto in 20 ore di lavoro si può recuperare circa un milione di euro di petrolio
In questo modo la lana sucida ordinaria, di qualità non appetibile per il tradizionale utilizzo tessile, non è più un rifiuto non smaltibile.

Dato che il petrolio è di fondamentale importanza per come abbiamo organizzato l'attuale civiltà purtroppo dobbiamo fare i conti anche con questo genere di problema.
E se la lana di pecora, un prodotto "rinnovabile" per eccellenza, ci aiuta, lo fa anche per controbilanciare una delle operazioni meno rinnovabili (o forse addirittura la più "non rinnovabile" di tutte, dopo le guerre) che si siano mai compiute sulla Terra: prelevare il petrolio dal sottosuolo, dove se ne stava bello tranquillo da qualche centinaio di milioni di anni, per renderlo disponibile in funzione delle nostre necessità di energia e di innumerevoli sostanze derivate.

Ancora una volta (l'ho già fatto per quella splendida idea imprenditoriale che risponde al nome di Edilana) mi viene da esclamare: viva le pecore!

Andrea Mameli www.linguaggiomachina.it 23 Febbraio 2013

21 febbraio 2013

Ridurre l'impatto ambientale delle centrali solari a torre. Nella domanda di brevetto depositata dal CRS4 una possibile soluzione di questo problema

La frontiera della ricerca nel campo delle fonti rinnovabili si sta spostando gradualmente verso soluzioni a impatto ambientale sembre più basso. E se nella definizione di impatto ambientale introduciamo non solo il grado di occupazione del territorio ma anche la tipologia di superficie sulla quale l'impianto incide, allora ci rendiamo conto di quanto possa essere importante progettare strutture che non necessitano di terreni perfettamente pianeggianti ma che si pssono adattare all'orografia del terreno. Ecco perché l'invenzione di Erminia Leonardi e Marco Cogoni, ricercatori del CRS4, potrebbe rivelarsi estremamente importante.

L'invenzione, per la quale all'inizio di febbraio il CRS4 ha depositato domanda di brevetto, ha lo scopo di migliorare il controllo di impianti solari a concentrazione basati non su una ma su più torri. Erminia Leonardi e Marco Cogoni conoscono molto bene la materia energetica e sono ottimi programmatori: hanno scritto un codice di simulazione numerica che permette di calcolare l'energia solare raccolta da un impianto a concentrazione multitorre. A questo hanno associato programma con il quale sono in grado di ottimizzare in tempo reale l'orientamento ottimale degli eliostati, cioè degli specchi mobili che servono a dirigere i raggi solari verso un unico punto situato sulla torre. Lo studio è stato condotto su un campo di eliostati che possono riflettere la luce del sole verso la torre di volta in volta più adeguata.

L'orientamento degli eliostati segue il movimento (apparente) del Sole e varia al variare delle condizioni di insolazione (per esempio in caso di presenza di nubi). Grazie a questa invenzione la produzione di energia solare raccolta dagli specchi può aumentare anche del 40% a parità di infrastuttura utilizzata (eliostati, area occupata, blocco di potenza, acqua per la gestione dell'impianto). Tutte le potenzialità di questo metodo di controllo vengono espressa quando l'impianto è costituito da un numero elevato di torri e si può così sfruttare appieno la gestione ottimizzata a livello globale dell'impianto. Non è da trascurare anche la possibilità, offerta da questo sistema, di adattare il puntamento degli specchi in caso di manutenzione alle torri riceventi, ridirigendo verso torri adiacenti il flusso solare raccolto e riflesso dagli eliostati, il tutto in maniera completamente automatica.

Uno degli aspetti più rilevanti dell'invenzione di Leonardi e Cogoni risiede nella possibilità di ottimizzare lo spazio occupato dagli specchi e l'altezza delle torri, riducendo al minimo il ricoprimento del suolo e l'impatto visivo. Inoltre un sistema di controllo degli eliostati così sofisticato permette di installare questo tipo di struttura anche in terreni di scarso interesse agricolo, come cave abbandonate, aree militari dismesse, zone industriali e terreni contaminati.

La domanda di brevetto nazionale (numero MI2013A000168) è denominata "Procedimento e dispositivo per il controllo di un impianto ad energia solare del tipo a concentrazione su più torri con eliostati".

La simulazione è stata fatta con 4 torri e 4 gruppi di eliostati, i quali si dispongono adattando la loro inclinazione per raggiungere il più alto grado di ottimizzazione energetica.


La simulazione nel video mostra le disposizioni degli eliostati in riferimento a 4 torri con il sole allo zenith. Gli specchi hanno un diametro di 3,5 metri, le torri sono alte 40 metri, la copertura del terreno è del 91%.
Inizialmente gli eliostati sono disposti simmetricamente rispetto alle torri (come si nota dai colori strettamente abbinati). La configurazione coincide con un impianto solare a torre gestito in maniera individuale e non in modalità multitower e quindi il ruolo delle ombre fra gli specchi molto ravvicinati riduce notevolmente la capacità di cattura dell'impianto

Gradualmente gli eliostati si orientano verso le torri per ottimizzare la trasmissione dell'energia solare in direzione della torre più in posizione più adeguata.
Nella fase finale la disposizione degli eliostati è apparentemente "disordinata" ma l'incremento di potenza erogata può raggiungere il 40%.

Andrea Mameli www.linguaggiomacchina.it 21 Febbraio 2013
I sistemi a Torre Solare: Ricerca e Sviluppo nella tecnologia solare ad alta Concentrazione (Erminia Leonardi, CRS4) seminario 13 Dicembre 2012

CRS4, domanda di brevetto italiano per un sistema di controllo dell'energia prodotta da impianti di energia solare a torre (CRS4, press release, 21/2/2013)

Domanda di Brevetto del CRS4 impianti solari multitorre (CRS4 news, 21/2/2013)

20 febbraio 2013

Racconta la tua esperienza di papà in azione. Concorso a premi.

Il concorso è rivolto ai papà lavoratori che vogliono raccontare con una lettera aperta, una riflessione, un racconto o con qualsiasi altra espressione artistica la propria esperienza nel conciliare il lavoro con l’essere padre.

Scadenza: 31 marzo 2013
Gli elaborati ricevuti saranno valutati da una commissione composta da esponenti qualificati sulla base dell’attinenza al tema proposto; originalità; capacità tecnica e artistica; capacità comunicativa.

Indirizzo mail: papainazione@gmail.com
È richiesta una dichiarazione liberatoria sottoscritta dall’autore che autorizzi all’eventuale pubblicazione o presentazione in pubblico e alla utilizzazione dei dati personali a norma di legge.
    Premi:
  1. Videocamera
  2. Marsupio porta bebè in tessuto naturale
  3. Fornitura di pannolini ecologici
Organizza, nell’ambito del progetto “Papà in azione”, l'Assessorato dell'Igiene e Sanità e dell'Assistenza Sociale, Direzione Generale delle Politiche Sociali, Servizio Attuazione Politiche Sociali Comunitarie, Nazionali e Regionali della Regione Autonoma della Sardegna.

Una piccola lettera di novant'anni fa. Ma nella comunicazione conta la qualità, non le dimensioni.

Appena 50 caratteri, spazi compresi, per scrivere la parola Auguri, il mittente (Orsola Canu e famiglia), la località di partenza (Jerzu) e la data (29 settembre 1923).
Per contenere queste informazioni era sufficiente un cartoncino di pochi centimetri (8 di larghezza e 3,5 di altezza). E alla busta serviva solo qualche millimetro in più, tanto che i francobolli superano il bordo per non restare appesi.
Novant'anni fa una lettera di auguri poteva essere davvero così piccola.
Oggi può apparire strano, ma in qualche modo siamo ritornati a quel formato, con sms, twitter e brevi messaggi di testo che accompagnano le immagini di facebook. Nella comunicazione non contano le dimensioni, ma la qualità dell'informazione.


P.S. Antonietta Lai era mia nonna.
Andrea Mameli 21 Febbraio 2013 www.linguaggiomacchina.it

19 febbraio 2013

Quanto conta il contenuto? "Content Strategy for Mobile" a Cagliari il 5 marzo

Il contenuto conta, e molto. Anche quando il contenitore potrebbe sembrare più importante. Ancor più quando i contenitori (leggi devices) sono sempre di più e sempre più diversi tra di loro.

Karen McGrane (una che su questi temi ha lavorato per Condé Nast, Disney, The Atlantic, The New York Times e nel ha fondato l’agenzia di consulenza Bond Art & Science ritiene indispensabile produrre contenuti adatti a qualsiasi piattaforma, semanticamente ricchi e adeguatamente strutturati. Karen McGrane intende questo per Adaptive Content e lo spiega bene nel suo libro Content Strategy for Mobile che sarà discusso a Cagliari, alla MEM (Mediateca del Mediterraneo, in via Mameli 164) martedì 5 marzo alle 18 e 30. Organizza: UX Book Club Sardegna.

Alberto Conte nel suo ottimo post del 12 Febbraio 2013 (Adaptive Content: il contenuto è la gallina alle uova d’oro della strategia digitale) ci informa che Karen McGrane l'anno scorso ha presentato il libro alla conferenza Breaking Development di Orlando: Adapting Ourselves to Adaptive Content (video, slides, and transcript, oh my!).

P.S. Alcune persone mi hanno chiesto: ma cos'è questo UX Book Club?
UX sta per User eXperience. E' sottintesa la parola "design". UX design è un tipo di progettazione di prodotti e servizi (web e non solo) che mette al centro del processo le motivazioni e le necessità degli utenti. Una progettazione che considera con attenzione i diversi contesti di utilizzo.
Ogni mese il gruppo UX Book Club Sardegna, formato da professionisti e appassionati desiderosi condividere e diffondere anche in Sardegna lo studio e la pratica dell’UX Design, sceglie un libro e si incontra per discuterlo. La discussione non è una chiacchiera da bar ma è un reale scambio di impressioni e di esperienze tra persone impegnate nel “fare”. E questo modo di condividere si rivela molto utile anche per chi di quelle esperienze non è ancora esperto. Un travaso di conoscenza informale in campo multidisciplinare che offre spunti e strumenti utili a tutte le figure impegnate nel web in modalità attiva e creativa.
«L’esperienza d’uso - mi ha spiegato Gabriela Lussu - concerne gli aspetti esperienziali, affettivi, l’attribuzione di senso e di valore collegati al possesso di un prodotto e all’interazione con esso, ma include anche le percezioni personali su aspetti quali l’utilità, la semplicità d’utilizzo e l’efficienza del sistema».



Il primo incontro del gruppo UX Book Club Sardegna si è svolto il 27 marzo 2012.

Andrea Mameli 19 Febbraio 2013 www.linguaggiomacchina.it

18 febbraio 2013

Huckleberry Bicycles: molto più di un negozio di biciclette. Una Start-Up di successo. Accade a San Francisco oggi.

Dodici anni fa ho avuto la fortuna di visitare San Francisco. E mi ricordo molto bene la deliziosa varietà di negozi di Market Street. Oggi ho scoperto che in questa prestigiosa strada è nato un negozio di biciclette molto particolare. Si chiama Huckleberry Bicycles e in realtà non è (solo) un negozio di biciclette ma un centro specializzato in servizi per la bici ("full-service bicycle shop") al quale il Sindaco di San Francisco aveva già dato il benvenuto: Mayor Lee Welcomes Huckleberry Bicycles as Newest Retailer to Central Market Street (6 agosto 2011).
Ho sentito parlare di Huckleberry stamattina alla radio (Gianluca Floris, Radio X, Cagliari) e la curiosità mi ha spinto a cercare di capire cos'ha di tanto particolare. E ho iniziato la mia micro inchiesta a partire dall'articolo citato da Floris: "I Can't Tell You Why We're Growing": A New Bike Store and the Mystery of Start-Up Success (The Atlantic, 4 Febbraio 2013).
Secondo Paul Graham, autore del post, i tre soci (Brian Smith, Jonas Jackel e Zack Stender) hanno previsto esattamente, anche in virtù della loro esperienza in un negozio di bici, cosa serviva per avviare il loro negozio: un affitto da 6 a 8 mila dollari al mese per un locale di 2.000 metri quadrati, circa 100 mila dollari per allestire il negozio, circa 75 mila dollari per acquistare la prima merce e da 25 a 50 mila dollari per coprire le spese varie. Un inaspettato quanto gradito intervento della Municipalità (San Francisco's Office of Economic and Workforce Development) ha garantito il prestito necessario a prendere in affitto un locale e trasformarlo. Nel primo anno va tutto bene: il volume d'affari supera le più rosee previsioni. Dopo tre mesi i fondatori hanno iniziato a pagarsi uno stipendio. Otto mesi più tardi potevano permettersi di pagare un dipendente.
Il marketing, conclude Paul Graham, si basa su annunci a pagamento su Google e Facebook, ma forse i fattori di maggior forza sono altri: la stessa ubicazione del negozio, che lo rende molto visibile ai passanti, e il passaparola positivo, davvero un ingrediente potentissimo in questo tipo di storie di successo.
Dopo aver perlustrato il sito huckleberrybicycles.com aggiungo tra i numerosi punti di forza di Huckleberry anche: la completezza (anche esteticamente curata) del sito, la nitidezza nei prezzi (date uno sguardo alla carta dei servizi: Service Menu), e, perché no, la bellezza del locale: parquet anche nell'officina, vetrine allestite con gusto, illuminazione studiata per bene.
Ma in fondo tra i virgolettati dei tre soci, riportati da Paul Graham, quella che mi colpisce di più (in quanto ho l'impressione che non sia puro marketing) è l'intenzione manifesta di far di tutto per rendere felici i clienti.
Andrea Mameli www.linguaggiomacchina.it 18 Febbraio 2013

17 febbraio 2013

Rainforest: regole e assiomi, innovazione e creatività

Prima di iniziare a leggere Rainforest ho analizzato i punti sui quali si basa il ragionamento sull'innovazione di Greg Horowitt e Victor Hwang. Si tratta di 7 regole e 14 assiomi.

Le 7 regole sono queste: rompere gli schemi, sognare, aprirsi al dialogo, saper ascoltare, aver fiducia, fidarsi, sperimentare e testare, superare l'egoismo, reagire agli errori, non fare tutto solo per il tornaconto. Eccole di seguito:
1) "Thou shalt break rules and dream";
2) "Thou shalt open doors and listen";
3) "Thou shalt trust and be trusted";
4) "Thou shalt experiment and iterate together";
5) "Thou shalt seek fairness, not advantage";
6) "Thou shalt err, fail, and persist";
7) "Thou shalt pay it forward".

Ed ecco i 14 “Rainforest Axioms”:
  1. While plants are harvested most efficiently on farms, weeds sprout best in Rainforest
  2. Rainforests are built from the bottom up, where irrational behavior reigns
  3. What we typically think of as free markets are not that free
  4. Social barriers – caused by geography, networks, culture, language, and distrust – create transaction costs that stifle valuable relationship before they can be born
  5. The vibrancy of a Rainforest correlates to the number of people in a network and their ability to connect with one another
  6. High social barriers outside of close circles of family and friends are the norm in the world
  7. Rainforests depend on people who actively bridge social distances and connect disparate parties together
  8. People in Rainforests are motivated for reasons that defy traditional economic notions of “rational” behavior
  9. Innovation and human emotion are intertwined
  10. The greater the diversity in human specialization the greater the potential values of exchanges in a system
  11. The instincts that once helped our ancestors survive are hurting our ability to maximize innovation today
  12. Rainforests have replaced tribalism with a culture of informal rules that allow strangers to work together efficiently on temporary projects
  13. The informal rules that govern Rainforests cause people to restrain their short-term self-interest for long-term mutual gain
  14. Rainforests function when the combined value of social norms and extra-rational motivations outweigh the human instincts to fear.
Andrea Mameli www.linguaggiomacchina.it 17 Febbraio 2013