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Video-pavimento im una stanza di Nachlass |
Nachlass, è uno spettacolo, dal primo momento all'ultimo. Lo è quando entri in sala, la attraversi tutta, raggiungi il palco, lo percorri fino a un cunicolo stretto e buio posto dietro il sipario e infine raggiungi un andito a pianta ellittica, con le pareti di legno e otto porte disposte in perfetta simmetria (ma quello spazio ellittico non è la cornice adatta a ospitare il segno simile proprio al numero 8: l'infinito?). Lo è quando ti sembra di essere finito dentro un'astronave, anche perché ogni porta è sovrastata da un display con un conto alla rovescia, di 8 minuti, e il soffitto mostra un planisfero retroilluminato. Lo è quando ti accorgi che il planisfero altro non è che un simulatore di decessi in tempo reale, nel quale ogni morte è indicata da una luce che si accende in qualche parte del mondo. Ma lo è soprattutto quando una delle porte automatiche si apre e ti svela il suo contenuto: un tavolo, due panche di legno, alcune sedie, una manciata di foto. Quando la porta si chiude ti accorgi che sul tavolo ci sono anche due schermi sui quali appaiono le traduzioni in italiano e in inglese di una voce che ti dice "Vous voyez mes photos, j'ai commencé è faire des photos à 14 ans. C'est quoi une photo? C'est des souvenirs de voyages, c'est des souvenir d'enfance, c'est des souvenirs de nos enfants" ("Vedi le mie foto, ho iniziato a scattare foto a 14 anni. Che cos'è una foto? Sono ricordi di viaggio, sono ricordi d'infanzia, sono ricordi dei nostri figli").
Nessuno ti spiega cosa devi fare. Lo capisci da solo, anzi insieme alle altre persone, mai viste prima in vita tua, che sono entrate con te in quella stanza. Capisci che devi ascoltare, leggere, toccare e guardare le foto. Poi senti una frase che ti offre una chiave di tutto: "Les photos sont un peu comme les corps del morts. On a un peu peur mais après l'image est toujours trés belle. C'est l'image qui reste" ("Le foto sono un po' come i corpi dei morti. Siamo un po' spaventati, ma dopo di che l'immagine è ancora molto bella. Questa è l'immagine che resta").
Ora è chiaro. Sei dentro uno spettacolo, ma uno spettacolo molto particolare: non ci sono attori o attrici. Ci siamo noi "spettatori" con i nostri sensi e la nostra immaginazione, pronti a cogliere ogni segno che giunge dalla "scena" e interpretarlo con quella chiave: le fotografie, le voci registrate, tutti gli oggetti e gli stessi arredi delle stanze sono quello che resta di alcune persone. Otto persone che hanno cercato di restare in questa forma, visibili e tangibili. E in alcuni momenti, come nel caso del ventilatore azionato da Celal Tayip o dell'acqua offerta da Annemarie e Günther Wolfarth, sembra di entrare, materialmente, in contatto con i pensieri di queste persone. E, indirettamente, con i pensieri degli autori.
Sul rapporto tra spettatori e autori ha scritto molto bene Marilena Borriello (Rimini Protokoll, de te fabula narratur alfabeta2.it):
«Sul piano pratico, la scala gerarchica tra autore e spettatore è cancellata: il potere di controllo del primo finisce laddove inizia la libertà di azione e comprensione del secondo. Una volta entrato in queste stanze, il visitatore si trova di fronte alla presentazione – non alla rappresentazione – di una storia, a una narrazione aperta, e diviene così un interlocutore. In altri termini, prende parte alla costruzione di una situazione che si riscrive ogni volta e di cui nessuno, tanto meno lui, può prevedere gli esiti.»
Con Nachlass ciò di cui si parla con enorme difficoltà, la morte, si mette al centro dell'attenzione. E fa irruzione in quelle 8 stanze con la sua immancabile durezza, ma anche con una buona dose di dolcezza.
Dietro tutto questo, è evidente, c'è un lavoro enorme. Ho cercato di immaginare se può essere stato più difficile pensare Nachlass o realizzarlo concretamente. Non lo so. So solo che il risultato dell'operazione è un percorso potente e delicato, ricco di umanità e dignità.
Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 24 Ottobre 2018