La scuola italiana dietro la lavagna (L’Unione Sarda, 20 giugno 2008)

La scuola italiana dietro la lavagna

Il declino del “sistema istruzione” nel libro di Tagliagambe e Campione 

Siamo in presenza di studenti 2,0 mentre la Scuola attuale è una Scuola 1,0». Parte con una metafora tecnologica la spietata analisi di Vittorio Campione e Silvano Tagliagambe: “Saper fare la scuola: il triangolo che non c’è” (Einaudi, 2008, 265 pagine, 20 euro). Esperto di sistemi educativi (e segretario del ministro della Pubblica Istruzione dal 1996 al 2000) il primo, docente di Filosofia della Scienza all’Università di Sassari (e membro delle Commissioni per la riforma dei cicli scolastici e l’individuazione dei saperi essenziali nel 1997 e nel 2001) il secondo. Gli autori denunciano il profondo distacco tra sapere e saper fare e ricordano che per i test PISA, le analisi sull’istruzione condotte dall’OCSE a partire dal 2000, solo l’1,5% degli studenti italiani rientrano nella fascia dei più bravi. 
Tagliagambe, quali soluzioni prospettate nel vostro libro? 
«Nell’evoluzione umana la tecnica ha preceduto la scienza e l’uomo è stato capace di mettere in campo notevoli realizzazioni pratiche quando ancora non si profilava all’orizzonte neppure un barlume di ciò che poi si sarebbe chiamato scienza. Per converso ci sono state culture, come quella cinese antica, che sono state in grado di sviluppare raffinatissime conoscenze scientifiche senza troppo preoccuparsi delle applicazioni. Oggi, nella società della conoscenza, si ha una simbiosi sempre più stretta tra fare e capire, e di questo anche la scuola deve prendere atto. La questione, tuttavia, è ancora più complessa e sottile: quando si parla di nesso tra “sapere” e “saper fare” ci si riferisce non soltanto alle applicazioni pratiche del sapere, ma a quella che possiamo chiamare la “dimensione operativa” della conoscenza, la capacità, cioè, di “mobilitare” ciò che si è appreso per riuscire a inquadrare correttamente i problemi, anche di natura teorica, di fronte ai quali ci si trova e a risolverli. Il deficit degli studenti italiani consiste nel fatto che spesso hanno conoscenze che non riescono ad applicare: conoscono, ad esempio, le leggi della meccanica, della termodinamica o della chimica ma spesso, quando si trovano di fronte a un problema che presuppone il riferimento a esse e comporta il loro uso, non lo sanno risolvere». 
Il libro critica con forza le retoriche “semplificatrici” che si affollano intorno al mondo della scuola. Le difficoltà risiedono più nella sfasatura tra i diversi cicli in cui si articola il sistema scolastico italiano o nel rapporto tra scienza e tecnologia, tra teoria e tecnica e tra queste e il pensiero umanistico? 
«La sfasatura tra i diversi cicli è un problema: pensare, come si è fatto finora, di riformarne uno, le elementari o le medie, indipendentemente dagli altri e senza mai toccare, nella sostanza, l’impianto delle superiori ha prodotto evidenti distorsioni di cui stiamo oggi pagando il prezzo. Bisogna riuscire a sviluppare competenze radicate e dotare gli studenti della capacità in primo luogo di selezionare l’informazione, stabilendone il grado di importanza e di pertinenza rispetto ai diversi problemi da affrontare, e, in secondo luogo, di “apprendere ad apprendere”, sviluppando percorsi autonomi di formazione». 
Perché sottolineate, con il Nobel per l’Economia Amartya Sen, che in Italia il livello di giustizia sociale è estremamente basso? 
«Parlare di giustizia sociale ha un senso ben preciso: il rapporto, ancora molto forte nel nostro Paese nonostante il fenomeno della scolarizzazione di massa che si è sviluppato a partire dagli anni ’70, che esiste fra “professione” del padre e “professione” del figlio. In Italia questo rapporto è ancora troppo statico, a dimostrazione di una debole capacità del sistema formativo di saper “mescolare le carte” in termini di opportunità per gli individui e di loro effettiva promozione sociale attraverso le competenze e le capacità acquisite. È evidente che il sistema formativo, da solo, non può essere chiamato a ribaltare questa situazione e a dare dinamismo al sistema sociale: ma è però vero che un sistema formativo che funziona, che supera le determinanti delle diverse origini familiari e sociali dell’individuo, è in grado di supportare meglio e con più efficacia una società delle pari opportunità e caratterizzata da quel livello adeguato di giustizia sociale a cui si riferisce, appunto, Amartya Sen». 
Professore, perché ha deciso di abbandonare l’università? 
«Potrei cavarmela con una battuta, rispondendo che, avendo insegnato prima a Cagliari, poi a Pisa, a Roma e ora a Sassari ho idealmente chiuso il cerchio, ritornando in Sardegna, cioè dove era partito il mio percorso accademico, e quindi a questo punto posso uscire senza rimpianti dal sistema. La realtà è che sono nell’università da trentacinque anni e ho sempre avuto, della sua funzione e dei suoi compiti, un’idea precisa che ho cercato, con testardaggine e ostinazione, di portare avanti: ricerca e didattica interna di elevata qualità, ovviamente, ma anche disponibilità e apertura nei confronti di altri sistemi, soprattutto di quello dell’istruzione, per evitare che si innesti un micidiale circolo vizioso in seguito al quale l’abbassamento del livello delle conoscenze e delle competenze degli studenti della scuola secondaria superiore produca (come in effetti sta accadendo) un inevitabile scadimento anche della qualità dell’insegnamento universitario. Sono inoltre stato sempre convinto che l’università non possa evitare di misurarsi sul serio con le nuove tecnologie e i nuovi linguaggi, strumenti e metodi che esse rendono disponibile e che essa debba rinnovare, di conseguenza, la propria didattica, in quanto è difficile pensare che il suo compito debba essere quello di restare al passo con i progressi scientifici ma non con quelli tecnologici. Ho dovuto però constatare che queste idee sono largamente minoritarie e poco comprese, per cui ne ho tratto la conclusione che, evidentemente, a essere sbagliata o poco realistica è la mia idea dell’università. A questo punto meglio andarsene prima di sentirsi un reduce o un disadattato». 
ANDREA MAMELI 
L'Unione Sarda, 20 giugno 2008
inserto Cultura Estate Pagina VII



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