30 dicembre 2006

Lungo otto sentieri di lettura (L'Unione Sarda, 30 dicembre 2006)

Daniele Barbieri (giornalista, reporter in zone di guerra, attento a temi sociali) e Riccardo Mancini (fondatore della casa editrice Avverbi e presidente del Comitato italiano contro le affermazioni del paranormale del Cicap-Lazio) pubblicano, con la prefazione di Valerio Evangelisti “Di futuri ce n'è tanti. Istruzioni per uscire da un presente senza sogni”. 
“Di futuri ce n’è tanti” presenta otto sentieri di lettura nella fantascienza, dalle città ai robot, dai computer alle nuove forme del potere, dalla religione al sesso, offrendo letture a volte inedite di un genere per troppo tempo segregato nelle celle della letteratura minore. La fantascienza (science fiction, o Sci-Fi) a torto ritenuta semplice incubatrice di fantasie, a volte premonitrici, in realtà, almeno nella sua fase più matura, dimostra di saper analizzare acutamente anche il tempo presente. Daniele Barbieri e Riccardo Mancini, dopo aver schedato oltre 300 racconti e romanzi del genere, osservano che la vera forza della “buona” fantascienza è l’idea di un futuro da sognare e da conquistare, non un sogno o quel che si definisce letteratura d’evasione. Ma ciò non impedisce alla fantascienza di aiutarci a rileggere il Novecento. O, restituendo dignità al nome stesso del genere, a farci individuare «tutti i paradossi di una scienza che libera e incatena, di una tecnologia con pochi scienziati (e con le tecnofobie e i tecno-vudù che ne derivano); di corpi inquietanti e di cyborg» fino a giungere ad affermare che: «un popolo che “dimentica il suo futuro! Non avrà né presente né speranze» Se è vero che i punti di forza della fantascienza, ovvero la sua capacità di analisi, di immaginazione e di denuncia, possono aiutare a scuotere le coscienze, allora acquista un profondo significato in questo contesto anche l’iniziativa di Amnesty International di dedicare un premio (“Omelas”) dedicato ai racconti di fantascienza incentrati sul tema dei diritti umani.
Ma la fantascienza può trovare spazio anche a scuola? Daniele Barbieri e Riccardo Mancini ne sono convinti almeno dal 1990, quando pubblicarono “Immaginare futuri” con La Nuova Italia. «Là dove – scrivevano i due autori nell’introduzione – negli ultimi sessant’anni, pessimismo e analfabetismo scientifico, preoccupazioni e paure sono spesso dilagate, la science fiction ha continuato, nelle sue opere più alte, ad immaginare altre possibilità, a costruire un laboratorio di sogni, accanto a quello degli incubi, del terrore, a ricordarci, di volta in volta, che in un mondo senza desideri e senza utopie non vale la pena di vivere.»
Erano gli anni in cui il periodico Scuola e Didattica (n.15, 1996) pubblicava interventi come “Fantascienza a scuola? No, grazie!” in cui l’autore, Antonio Scacco, citando un saggio di Evandro Agazzi (docente di Cultura scientifica e interdisciplinarità all’Università di Genova) avanzava l’ipotesi che questa forma di allergia, manifestata dagli insegnanti italiani nei confronti della fantascienza, potesse avere un qualche legame con quella verso la scienza. Sollecitazioni che giunsero a destinazione. A giudicare almeno dalla circolare del Ministero della Pubblica Istruzione del 28 maggio 1998 (indirizzata ai Provveditori agli Studi, ai Direttori Didattici, ai Presidi degli Istituti di Istruzione Secondaria di primo e secondo grado) che invitava gli studenti a partecipare al Primo Concorso nazionale per il miglior racconto di fantascienza, regalando alla fantascienza un’inedita, alta considerazione, sul piano letterario e sotto il profilo pedagogico. Il libro può servire come mappa per orientarsi tra fantascienza commerciale e Sci-Fi di qualità. Non si può negare che una lettura ragionata di racconti possa contribuire a garantire un atterraggio morbido tra le asperità di temi e concetti che non sempre hanno facile impatto tra i giovani.
ANDREA MAMELI


27 dicembre 2006

Il concetto di razza? Per la scienza è una menzogna (L'Unione Sarda, 27 dicembre 2006)

Fin dalla sua nascita, avvenuta nel 1700, l'antropologia ha fatto da ponte tra i due mondi in cui, arbitrariamente, dividiamo il sapere: la cultura scientifica e la cultura umanistica. Anche per questa ragione un concetto, quello di “razza umana”, è rimasto a lungo sospeso, in una sorta di limbo, tra realtà e immaginazione, fino al 1972: quando il genetista Richard Lewontin fu capace di dimostrare che la percentuale globale di variabilità del nostro genoma è vicina all'85%. In altre parole, se per una colossale catastrofe si salvasse solo una ristretta porzione della popolazione umana, in essa sopravviverebbe l'85% della variabilità genetica attuale.
Dato che siamo nati in Africa, circa 200 mila anni fa, la maggiore variabilità genetica si riscontra in quel continente (“effetto fondatore"), poi abbiamo colonizzato Europa e Asia, portando con noi una variabilità genetica via via minore. Questo dato, poi confermato nel 2004 (da David Goldstein e Guido Barbujani) e nel 2005 (da Franck Prugnole), dimostra che il concetto di razza, per l'Homo Sapiens, non ha fondamento scientifico. Nel nostro caso solo il 7% di tutti i geni è specifico di una ristretta area geografica: quanto generalmente basta a permetterci di riconoscere la provenienza di una persona. Ma non abbastanza per classificare tali differenze: quelle che hanno permesso alla nostra specie di adattarsi a climi e ambienti molto diversi.
Lo spiega con precisione, ma in modo estremamente godibile, un recente saggio di Guido Barbujani: L'invenzione delle razze, capire la biodiversità umana (Bompiani, pagine 180, euro 7,80). L'autore sottolinea che la nostra identità risiede solo in piccola misura nel patrimonio biologico: quello che conta è ciò che sentiamo, vediamo, impariamo, nel corso della nostra vita. Barbujani, docente di genetica all'Università di Ferrara, sostiene che la parola razza non identifica alcun elemento biologico riconoscibile nel Dna della nostra specie e che pertanto nulla di genetico è associabile alle identità etniche o culturali: “La cosiddetta razza ispanica è la dimostrazione migliore che i concetti comuni di razza non c'entrano con la scienza. Negli Stati Uniti chiamano ispanici gli immigrati che parlano spagnolo: due caratteristiche, la lingua e l'essere immigrato, che ovviamente non hanno nulla a che vedere con i nostri geni”. Per la scienza siamo “tutti parenti e tutti differenti”. Ma il pregiudizio è duro a morire. Le mostruosità causate dalla degenerazione del “razzismo” e le immagini della propaganda fascista furono portate in giro per l'Italia con la mostra “La menzogna della razza” (allestita dal Centro Furio Jesi di Bologna) che fece tappa a Cagliari nel 1996, per iniziativa dell'Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell'Autonomia. Forse è opportuno classificare la razza umana proprio come una bugia, sorella di pagine ignobili per la scienza (come il Manifesto degli scienziati razzisti, del 14 luglio 1938, e il mensile “La difesa della razza”, nato il 5 agosto 1938) e madre di Auschwitz. 
ANDREA MAMELI


26 dicembre 2006

Cresce il Centro per l'Autismo dell'Ospedale Brotzu (Cagliari)

AutismSwing [Newsweek Health, febbraio 2005: William Marquis, 11 anni, autistico, gioca con la sorellina Hannah, 6 anni, durante le attività di gruppo a Los Angeles]
Individuato nel 1943 da Leo Kanner (1943-1981), l'autismo, oggi denominato "Disturbo Pervasivo dello Sviluppo" (PDD, ICD 10, Organizzazione Mondiale della Sanità) si manifesta entro il terzo anno di età con deficit a livello di comunicazione, interazione sociale, immaginazione. L'Ospedale Brotzu di Cagliari nel 2003 ha dato vita al Centro per l'Autismo. Il 20 dicembre risultati e prospettive del centro sono stati presentati nel corso di una Conferenza stampa. "Il Centro per l'Autismo - ha spiegato il Direttore Generale dell'Azienda Ospedaliera "G. Brotzu", Mario Selis - fornisce diagnosi, cura e riabilitazione sia in modo intensivo, all'interno della struttura ospedaliera, sia in forma integrata, cioà a domicilio, grazie alla collaborazione che si è instaurata con i soggetti che collaborano con il Brotzu. Nel 2003 gli ingressi furono di 50 soggetti. Oggi il Centro assistite più di 300 persone." I pazienti provengono da tutta la Sardegna, regione che fino a pochi anni fa non aveva alcun programma specifico.
pecs "I disturbi pervasivi dello sviluppo, o autismo - ha spiegato il direttore del Centro, Giuseppe Doneddu - alterano in maniera drammatica lo sviluppo dei bambini e compromettono le autonomie personali e sociali determinando costi molto elevati, dal punto di vista affettivo e economico, non solo per gli individui ma anche per le famiglie e per la società." Il Centro ha raccolto il numero di casi di pazienti affetti da Disturbi pervasivi dello sviluppo riordinato per anno di nascita. "Sono dati sottostimati - ha sottolineato Giuseppe Doneddu - perché non tutti sono stati visti nel nostro centro. I nati nel 2004 stanno arrivando adesso poiché le diagnosi vengono fatte tra i 18 e i 24 mesi. Siamo intorno ai 20 nati per anno. E se teniamo conto che i nati per anno in Sardegna sono circa 10 mila, noi stimiamo un'incidenza di nuovi dati pari a 20 nati ogni 10 mila."
L'intervento si fonda sull’Applied Behavior Analisys: due ore terapia cognitivo comportamentale al giorno per 5 giorni alla settimana; un'ora di terapia del linguaggio e della comunicazione (ABA) per 5 giorni alla settimana; mezz'ora di terapia occupazionale alla settimana; un'ora di intervento alla settimana con il sistema PECS (Picture Exchange Communication System, un esempio in alto a destra) per i pazienti non verbali.
velaterapia Il trattamento prosegue poi in ambito domiciliare per favorire l'integrazione dei pazienti nel contesto sociale e scolastico, o anche extrascolastico, come il progetto Vela Solidale, che si svolge da oltre un anno (in collaborazione con i Comuni di Cagliari e Quartu S. Elena, Unicef, Rotary, Yacht Club, Lega Navale, Centro velico di Quartu S. Elena, Ospedale S. Maria Bambina di Oristano): una cinquantina di pazienti di età compresa tra 4 e 20 anni, affetti da problemi motori o disturbi pervasivi dello sviluppo, hanno vissuto esperienze di velaterapia. I risultati della ricerca saranno presentati a Oslo, nel corso dell'VIII congresso internazionale sull'autismo in programma il 31 agosto 2007.
Il Centro del Brotzu negli ultimi mesi del 2006 ha dato vita a numerose attività. erin In particolare i corsi di formazione, l'ultimo dei quali ha avuto una docente d'eccezione: Erin Brooker Lozott (M.S., CCC-SLP UCF-Center for Autism and Related Disabilities Alessandri & Associates, Florida, foto a destra) sul tema "Funzioni Esecutive e Teoria delle Mente: modelli d’intervento per i disturbi del linguaggio e della comunicazione nei PDD". O i seminari tenuti da Lennart Gustafsson (professore associato all’Università Lulea, in Svezia, esperto di Ingegneria Informatica all’Embedded Internet System Laboratory) sulle reti neruali Self-Organizing Maps (SOMs), che permettono lo studio dello sviluppo delle mappe corticali, quelle compromesse negli individui con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo.

24 dicembre 2006

Un racconto inedito. Il mio regalo per i lettori di Linguaggio Macchina.

Linguaggio Macchina.
Alberto era un ragazzo tranquillo. Aveva iniziato a giocare con il computer del papà a 8 anni, e a dieci sapeva usare tutti gli apparati elettronici della casa. I vicini gli chiedevano di aggiustare il frullatore, la radio, l’aspiravolvere. A dodici anni aveva iniziato a programmare. A quindici era già in grado di eseguire qualche lavoretto serio: un programmino di contabilità per lo studio di papà, un applicativo per catalogare le ricette della zia Paola, il sito internet del negozio di quadri sotto casa. sabaOggi Alberto ha vent’anni e studia all’università: esce per andare a lezione, rientra per pranzo, riesce solo se ha laboratorio, palestra o qualche pizzata con gli amici. Ma il resto del tempo non esiste tv, ragazza o videogiochi. Alberto accende i suoi pc con i quali a allestito una rete senza fili e resta ore in camera. Studiava quel poco che gli serviva per fissare bene i concetti, quando non aveva già letto e capito l’intero paragrafo per conto suo prima della lezione.
I genitori lo chiamano ancora il bambino e pensano sempre che stia giocando come faceva molti anni prima. “Il gioco è la vita stessa del bambino – ripeteva spesso la mamma – l’esperienza che più di ogni altra lo aiuta a costruire la sua intelligenza e la sua personalità.”
Ma Alberto non era più un bambino. E non restava in camera a giocare. “Creo software” rispondeva agli zii quando passavano a trovarlo e gli rivolgevano il solito “Ciao Alberto, come va? Cosa stai facendo di bello?”
Una volta a tavola disse: “Sono un creatore. Leggo, capisco, imparo, e poi creo software.” E di fronte all’espressione interrogativa della mamma continuò: “Il software libera il potenziale presente nell’hardware e agisce come trasformatore e traduttore di informazioni. Dal linguaggio umano al linguaggio macchina. E io oltre a creare software devo anche studiare e dare gli esami.”
Il padre immaginava che dopo aver discusso la tesi e completato il lungo percorso universitario il suo bambino sarebbe stato pronto a entrare nel ciclo produttivo realizzando programmi per qualche grossa multinazionale del settore. Del resto da piccolo aveva dimostrato interesse per molti campi della conoscenza. E i docenti erano fieri di lui. Come amava le scale musicali e le combinazioni di colori, così aveva sviluppato una particolare predilezione per la tavola periodica, giungendo a considerare i componenti ultimi della materia alla stregua di una tavolozza o di uno spartito. Ma poi la passione per il computer aveva prevalso su ogni altro interesse.
Alberto ogni tanto pensava a cosa avrebbe fatto da grande. Non aveva alcuna intenzione di chiudersi in uno studio o peggio in un grande e rumoroso open space per creare software che altri avrebbero inserito in un pacchetto e rivenduto, dopo averlo etichettato con un nome e un marchio, senza mai citare il suo nome. Per lui il software si doveva sviluppare liberamente con la partecipazione di più menti in un percorso creativo senza compartimenti stagni. Ne era convinto per la bellezza e la vivacità del confronto che su questi temi era nato e si era sviluppato in rete e al quale aveva partecipato con entusiasmo e per quello che aveva letto nei pochi libri che si era fatto arrivare da fuori o aveva preso in prestito nella biblioteca della facoltà.
Alberto amava le frasi piene di contenuto, quelle che ricopiava nel suo taccuino di pelle nera ogni volta che le trovata in un libro o in un sito o nella segnature di un messaggio di posta elettronica. Una volta aveva scritto a un amico di tastiera, quello che si faceva chiamare artiglio, che certe frasi gli ricordavano le melanzane alla parmigiana. Squisite e con un effetto immediato sul palato, ma da mangiare con moderazione. E lo stesso valeva per i forum, le chat e i blog, dove spesso lasciava la sua opinione, ma non si fermava mai troppo tempo: a vent’anni era già in grado di amministrare il tempo come pochi alla sua età. “Non voglio sprecare le mie giornate” pensava quando le discussioni si facevano troppo animate e i flame poveri di significato. Lui non aveva mai voluto fissare una frase sotto la sua firma, nelle email, perché preferiva farlo a seconda del destinatario, della circostanza, del contenuto stesso della comunicazione. Agli inizi era solito chiudere con poche righe tratte da Computer Zen, di Philip Toshio Sudo: asaba
Gli esseri umani si differenziano dalle altre specie per il fatto di:
avere delle capacità comunicative;
essere abili a usare strumenti e attrezzi;
essere consapevoli di se stessi.

Alberto raramente riprendeva frasi usate da altri perché teneva molto a essere originale. Cercava nei libri qualcosa che potesse in qualche modo rappresentare i suoi pensieri, scuotere, provocare, emozionare. Poi, negli ultimi tempi amava trascrivere una frase di Nathaniel Borenstein dal libro "Programming as if People Mattered":
La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che è più probabile che la distruzione del mondo, qualora ciò si realizzi, avverrà accidentalmente.
A questo punto, siamo noi ad entrare in gioco. Noi siamo professionisti del computer e in quanto tali provochiamo incidenti.

Poi accadde qualcosa. Passavano le settimane e Alberto si isolava sempre più. Non parlava quasi più. Non usciva dalla sua stanza se non per necessità urgenti.
Era successo che Alberto, chissà, forse per dimostrare qualcosa, forse per riuscire a raccontare ai frequentatori delle stanze virtuali che preferiva, intelligenza artificiale e ingegneria del software, qualcosa di nuovo e non banale. O forse solo per la bruciante passione che lo animava Alberto aveva iniziato parlare con i computer. Nel senso che sapeva come comunicare con loro. Si esprimeva facilmente con il linguaggio più lontano dall’uomo, e più vicino al computer. Un linguaggio ai più totalmente inaccessibile. Noto con il nome di Linguaggio Macchina.

Linguaggio Macchina è un racconto di Andrea Mameli.
Le foto sono gentilmente concesse da Antonio Saba.
Cagliari, 24 dicembre 2006