Uomini e pecore, tracce di una lunga storia (L'Unione Sarda, 26 aprile 2009)
Domesticazione: la rivista "Science" pubblica la ricerca condotta da Bernardo Chessa dell'Università di Sassari sulle tracce dei retrovirus in 1362 campioni.
Seguire le tracce dell'avvicinamento tra uomini e animali per conoscere meglio gli uni e gli altri. Sono questi i propositi di chi studia la storia della domesticazione: dal cane alla capra, dal maiale all'ape. Il numero di Science del 24 aprile, a dimostrazione dell'importanza che questo argomento riveste per numerose discipline scientifiche, dedica la copertina a tre articoli sul tema. Tra questi spicca lo studio di Bernardo Chessa (ricercatore nell'istituto di Malattie Infettive dell’Università di Sassari, diretto da Marco Pittau) dedicato alla storia della domesticazione della pecora.
Alla ricerca dello studioso sardo (iniziata con un anno di lavoro nell'istituto diretto da Massimo Palmarini dell’Università di Glasgow) hanno collaborato Pittau e Alberto Alberti, dell'ateneo sassarese, e ricercatori di altri 26 istituti sparsi per il mondo.
Analizzando campioni provenienti da 1362 animali Bernardo Chessa (laurea in Veterinaria e dottorato in Biotecnologia Molecolare) ha indagato le tracce lasciate dai retrovirus, ovvero quei virus caratterizzati dall’avere, come materiale genetico, l’RNA al posto del DNA, e dalla capacità di trascrivere, o per meglio dire retrotrascrivere (da qui il loro nome) il proprio genoma da RNA a DNA. Il DNA così sintetizzato si integra in maniera permanente nel genoma della cellula ospite.
Le pecore come tutte le specie animali, uomini inclusi, contengono nel loro genoma retrovirus “endogeni” derivanti dal particolare ciclo replicativo di questi virus. I retrovirus, infatti, esistono sia in forma di virus “esogeni” (trasmessi da ospite infetto a non infetto come gli altri virus), sia come virus endogeni (detti ERVs, che derivano invece dall’infezione delle cellule germinali). Questi ultimi, integrati nel DNA dell’ospite si comportano come ogni altro gene e sono trasmessi da genitore a prole.
La ricerca di Bernardo Chessa ha individuato 27 ERVs: è emerso che alcuni retrovirus si sono integrati tra 5 e 9 milioni di anni fa nei progenitori selvatici, altri in epoche più recenti. Mentre sei ERVs sono stati utilizzati per ricostruire la storia evolutiva degli ovini analizzando 133 razze di pecore provenienti da tutto il mondo. Si scopre che gli uomini, migrando dal Medio Oriente alla Sardegna, hanno lasciato tracce che combaciano con quelle dell'addomesticamento della pecora.
Cosa avete trovato con le vostre ricerche?
«Combinando questi studi con rilievi archeologici - spiega Chessa - abbiamo scoperto che esistono alcune razze di pecore più primitive che possono essere distinte dal punto di vista genetico sulla base dei vari ERVs contenuti nel loro genoma, che noi chiamiamo "retrotipo". In altre parole pecore differenziate dal loro "retrotipo" e dalla loro morfologia si sono disperse in Eurasia e Africa dopo essere partite dal Medio Oriente attraverso distinte migrazioni. Le prime pecore di 10 mila anni fa erano molto simili al muflone. Abbiamo scoperto pecore primitive in Sardegna, in alcune isole scozzesi, nel Baltico e in Finlandia».
Questo studio potrà essere utile anche per le pecore "moderne”?
«Certo, con questo strumento – sottolinea Chessa – siamo in grado di individuare quali sono le pecore che hanno subìto meno incroci rispetto ad altre. E capire quali sono quelle razze che possono avere caratteri genetici da salvaguardare. La secolare selezione cui molte pecore sono state sottoposte può aver escluso delle caratteristiche utili, come per esempio la capacità di resistere a molte malattie, in particolare quelle infettive».
E per altre specie?
«Si potrebbero individuare dei marcatori genetici basati sui retrovirus endogeni anche in altri animali. La pecora rappresenta un ottimo modello per studiare le interazioni fra retrovirus endogeni e ospite. Molti ERVs conferiscono forme di protezione, impedendo o limitando l’attacco e la proliferazione di retrovirus patogeni, o come accade nella pecora e nell’uomo alcune sequenze endogene permettono l’impianto dell’embrione e la formazione della placenta».
Per l'archeologo Savino di Lernia (direttore della missione archeologica dell’Università La Sapienza nel Sahara) «lo studio è estremamente interessante e utilizza un metodo molto promettente» sottolinea di Lernia (che nel prossimo numero del bimestrale Darwin affronta il tema della domesticazione animale sul piano antropologico) «Poter cogliere questi aspetti per noi archeologi è un fatto molto raro».
Per l'embriologo Lino Loi, docente di fisiologia all'università di Teramo, la ricerca ha elementi di assoluta importanza: «Oggi la pecora è soggetta a una globalizzazione genetica: alcune razze spariscono, sostituite da altre. Le razze autoctone andrebbero sempre salvaguardate».
A partire da quelle sarde. Seguendo l’esempio delle associazioni per la tutela delle pecore inglesi.
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