10 agosto 2013

Il fotografo e il medico. Eroi dell’era nucleare


Il 10 agosto 1945 Yosuke Yamahata fu incaricato dal comando militare nipponico di fotografare una città bombardata. Non era un evento raro, di quei tempi, ma la distruzione che restò impressa in quelle foto aveva qualcosa di
eccezionale. Del resto erano passati solo tre giorni dalla distruzione di Hiroshima e pochi giapponesi sapevano cosa stava succedendo. Yosuke Yamahata attraversò a piedi Nagasaki in lungo e in largo, per 8 ore di fila. E nel primo pomeriggio consegnò 117 scatti.
Quel Torii, il portale del tempio scintoista, che si staglia sopra la sterminata distesa di macerie è diventato uno dei simboli della devastazione atomica.
Il nome della bomba al plutonio fatta esplodere 2 minuti dopo le 11 del 9
agosto era “Fat Man” (“Ciccione”) in base alla regola non scritta secondo la
quale più la bomba era distruttiva e più il suo nome deve essere spiritoso.
I suoi effetti furono devastanti: 73.884 morti, 74.909 feriti, 1.929 dispersi, come recita il bollettino di guerra defininivo, pubblicato dopo 5 anni.
Esistono molte altre storie di eroismo, legate alla tragedia di Nagasaki, che è giusto non dimenticare. Come quella di Takashi Paolo Nagai, il medico radiologo giapponese noto come il Santo di Urakami, dal nome del quartiere in cui visse dopo che la bomba gli rase al suolo la casa e gli uccise la moglie. Il dottor Nagai per i successivi 58 giorni si dedicò totalmente alla cura dei sopravvissuti. Nel 1949 gli fu conferita la cittadinanza onoraria della città di Nagasaki. Morì a 43 anni, nel 1952, a causa della leucemia contratta per la copiosa esposizione ai raggi X senza alcuna protezione, in quei giorni frenetici di diagnosi e cura dei feriti. Ventimila persone assistettero al suo funerale.
Le fotografie di Yosuke Yamahata racchudono una forza comunicativa enor-
me (non a caso gli Stati Uniti vietarono la loro pubblicazione per 7 anni): nel 1995 la televisione di stato giapponese riuscì a scovare alcuni sopravvissuti di Nagasaki proprio grazie agli scatti di Yamahata. E altri sopravvissuti riemersero dall’oblio dopo che fu mandato in onda il video documentario realizzato con quelle interviste.
A distanza di anni è giusto chiedersi perché fu presa la decisione di far esplodere l’atomica su due città giapponesi. Innanzitutto bisogna sottolineare che il bersaglio è stato cambiato in corso d’opera, dato che il progetto Manhattan era stato pensato per contrastare il programma atomico della Germania nazista: in origine le bombe non erano destinate al Giappone. La tesi ufficiale è che gli Stati Uniti avevano il dovere di impartire una severa lezione all’impero nipponico allo scopo di accelerare la fine della guerra. Ma se è vero che l’imperatore del Giappone era pronto alla resa già da qualche settimana, allora far esplodere la bomba su Hiroshima fu inutile, e ripetere la prova su Nagasaki lo fu ancora di più. Non sarebbe bastato condurre altri test nel deserto del New Mexico?
La motivazione più realistica, che non fu mai ammessa ufficialmente, è che serviva provare bene le bombe più distruttive mai costruite e quindi un solo test non era sufficiente. Una seconda motivazione è che le esplosioni atomiche sul Giappone furono ordinae per vendicare Pearl Harbor. Ma vi è, forse, un terzo motivo: mostrare al mondo la potenza delle nuove armi non era sufficiente a impressionare i potenziali nemici. Era necessario dimostrare di essere in grado non solo di avere un arsenale midiciale, ma di non avere scrupoli a usarlo contro la popolazione civile.
Leo Slizard, lo scienziato ungherese che convinse Albert Einstein a scrivere al presidente Roosevelt la lettera con la quale si incoraggiavano gli Usa a far prima dei tedeschi nella corsa all’atomica, dopo la fine della guerra fu molto severo nel giudizio. E scrisse: «Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro lo avremmo definito un crimine di guerra, e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norimberga. E li avremmo impiccati».
Questa storia, come tutta la vicenda che ruota intorno al progetto Manhattan, segna un punto di svolta nella storia della scienza. Da quelle due esplosioni, ha scritto Pietro Greco nel libro "Hiroshima. La fisica conosce il peccato" (Editori Riuniti, 1995), non è più possibile per i fisici trascurare gli aspetti etici della propria ricerca e gli effetti sulla società e sul mondo.
La storia del bombardamento di Nagasaki è una storia di dolore e di oblio.
Da quel 9 luglio più di 70.000 cittadini hanno sofferto e sono stati uccisi dagli effetti delle radiazioni. Non è giusto dimenticare questa storia, che viene quasi sempre posta in secondo piano rispetto a quella di Hiroshima. Nel tenere viva la memoria un grande merito spetta ai sopravvissuti, gli hibakusha, le cui testimonianze hanno avuto e in qualche modo hanno tuttora un’importanza notevole. In fondo, se questo sacrificio può esser stato utile forse è proprio come deterrente: siamo sicuri che la guerra fredda sarebbe rimasta tale anche senza le due atomiche sul Giappone?

Andrea Mameli 

(articolo pubblicato nell'inserto Estate del quotidiano L'Unione Sarda il 10 Agosto 2013)


Torii. Nagasaki, 10 Agosto 1945. Foto: Yosuke Yamahata.

09 agosto 2013

Nagasaki, 9 Agosto 1945, ore 11:02

A mushroom cloud rises over Nagasaki. August 9, 1945
Censored at first, memoirs penned by teen Nagasaki A-bomb survivor revived
A diary written by a 14-year-old girl after she was caught up in the atomic bombing of Nagasaki on Aug. 9, 1945, is regarded as one of the most telling memoirs of the event.
Masako Yanagawa, 82, talks about the diary she wrote when she was 14 after surviving the Aug. 9, 1945, atomic bombing of Nagasaki.
The publication of the diary after a censorial struggle with the Allied Occupation authorities “may have contributed to peace,” said Masako Yanagawa, 82, about her writing.
(Japan Times, Aug 6, 2013)
 


08 agosto 2013

Pietro Olla a Trento: un clown per la scienza

A Trento il 27 Luglio ho incontrato un carissimo amico cagliaritano. Non era lì per caso, ma per partecipare attivamente all'inaugurazione del Muse. Pietro Olla, ufficialmente ingegnere, di fatto è un Clown Scientifico, un Animatore Sociale, un Artista di Strada, un Divulgatore e un Ricercatore.
A distanza di qualche giorno da quelle straordinarie giornate (sulle quali ho scritto abbondantemente) ho posto alcune domande all'amico Pietro, il quale ha risposto con la consueta gentilezza e precisione.

Ecco l'intervista (le foto sono di chi le ha scattate: c'è scritto sotto).
Buona lettura!

Pietro Olla al Muse 27/7/2013
(Foto: Alessandro Largaiolli)
Pietro Olla, quale percorso ti ha portato a Trento?
«Nel 2002 il mio primo stage al Museo tridentino di scienze naturali, il padre del Muse, ero appena uscito dalla prima esperienza di Ricerca, all'ENEA di Roma. Quello è stato il primo approccio alla comunicazione della scienza: fui mandato dalla società nella quale lavoravo, Hidrocontrol, a fare un corso di formazione di tre mesi. Ho scoperto la realtà stimolante di Trento e ho conosciuto Lavinia Del Longo, la quale già da qualche anno aveva iniziato a studiare l'idea di un nuovo museo della scienza di tipo interattivo. Quell'esperienza fu alla base della mostra Circolacqua di avvicinamento alla cultura dell'acqua. Nel 2006 organizzai Fragili Equilibri e Lavinia Del Longo fornì la supervisione scientifica. La mia carriera di divulgatore è strettamente legata al progetto Muse. Anche l'emozione per partecipare all'inaugurazione del Muse è stata molto forte. Mi ha fatto molto piacere quando mi hanno invitato a partecipare».

Quale contributo hai portato all'inaugurazione del Muse?
Pietro Olla a testa in giù. Foto: Viktoriya Litvinchuk.
«Il 27 ho fatto un'animazione di strada, in stile Clown, insieme a una banda musicale. La mattina seguente ho avuto l'onore di portare sul palco del Muse il mio spettacolo Prof. Pirer Pietrosky e il coniglio nel cappello. Nelle foto si vede il profilo del Muse e un momento dello spettacolo con il pubblico della grande festa di inaugurazione».

Che sensazioni hai provato?
«Mi sentivo come una formichina in un formicaio. Tra gli artisti partecipanti ero uno di quelli che veniva da più lontano. Mi sembra un'esperienza eccezionale. E il Muse mi piace moltissimo. Apprezzo soprattutto la scelta del vincolo indissolubile con il territorio: dal profilo architettonico ideato da Renzo Piano, che riprende lo skyline delle alpi, ai contenuti, dalle professionalità alla collaborazione con le istituzioni, forti e presenti. Il muse è una agenzia provinciale. Un luogo virtuoso dove si spendono, bene, soldi pubblici per offrire il meglio per i nostri giovani. Un esempio per il Paese in tempi bui per le pubbliche amministrazioni».

Pietro Olla a Trento. Foto: Viktoriya Litvinchuk.
E in Sardegna, come la vedi?
«I tempi sono maturi, lo scenario è pronto. Molte persone hanno studiato molto, con master, corsi di specializzazione, laboratori e tanto tanto lavoro sul campo. Esiste una rete, nata di recente. E una piattaforma di comunicazione che sta prendendo piede. Siamo pronti per un progetto, non grande quanto il Muse ma ormai è urgente non rinviare più. Sardegna Ricerche, l'ente regionale che gestisce i fondi pubblici in questo settore strategico per le politiche educative, scolastiche e culturali, si muove ormai in questa direzione. Manca però una strategia chiara sul lungo periodo, tuttavia con le elezioni alle porte, questo è chiaro e prevedibile. I politici si devono svegliare perché è necessario e urgente fornire alle scuole luoghi extrascolastici di approfondimento culturale e di stimolo per la divulgazione della scienza. In questo momento la palla è nelle loro mani, speriamo di riuscire a parlarne anche in campagna elettorale».

Andrea Mameli, Blog Linguaggio Macchina, 8 Agosto 2013



Pietro Olla al Muse 27/7/2013 (Foto: Michelle Villareal)

Ombre azzurre. Vorrei vederle con le rotoballe.

Una serie di 25 opere, dipinte tra il 1889 e il 1891 da Claude Oscar Monet. Una meticolosa analisi del comportamento della luce. Un capolavoro di arte e scienza. Sono i covoni di grano, ritratti “en plain air”, con i quali Monet riesce a fissare sulla tela una caratteristica (non molto nota): le ombre colorate.
Ieri sera ho provato a immortalare, queste ombre colorate, ma senza successo. Non ho trovato i covoni, ma le rotoballe: decine e decine di rotoballe visibili dalla statale 195, attendevano il mio scatto. Niente da fare: ombre nere. Ma ovviamente non finisce qui: le ombre azzurre saranno la mia ossessione fotografica di quest'estate!
Rotoballe al tramonto. Sardegna. Agosto 2013. Foto: A. Mameli
Già che ci siamo perché non proviamo a capire cosa sono queste ombre colorate? Immaginiamo la luce del sole come una raffica di cariche elettriche oscillanti o come una mitragliata di molle in forte agitazione. E immaginiamo la reazione delle molecole dell'aria quando vengono colpite da questa raffica: spaccano le molle in tante molle più piccole che vengono sparpagliate in tutte le direzioni, anche se la raffica principale continua la sua corsa nella direzione originale. Questo sparpagliamento non è altro che la diffusione della luce in tutte le direzioni. Possiamo anche immaginare che l’efficienza di questo processo possa essere in qualche modo legata all’accelerazione delle cariche.
Campo con rotoballe al tramonto. Sardegna. Agosto 2013. Foto: A. Mameli
Questo fenomeno, visto con gli occhi della luce, cresce enormemente all'aumentare della frequenza della luce stessa. Ma scrivere che la luce blu viene diffusa in tutte le direzioni perché ha una frequenza elevata esprime un significato preciso solo per chi ha studiato la fisica della luce. Si ha maggiore familiarità con il concetto di frequenza elevata nel caso delle onde sonore: i suoni bassi corrispondono alle basse frequenze e gli acuti alle alte frequenze. Ora, dato che la lunghezza d'onda è l'inverso della frequenza, se scrivo che la luce blu è quella con lunghezza d'onda più piccola, probabilmente è più facile intuire che la luce di quel colore interagisce di più con con l'atmosfera. In altre parole gli effetti di interazione tra la luce e le particelle che compongono l'atmosfera dipendono dalla lunghezza d'onda della luce e dalle dimensioni delle particelle sulle quali essa si scontra. Per questo il blu è il colore che viene diffuso di maggiormente degli altri. Questo processo (chiamato “scattering di Rayleigh”) spiega il colore del cielo nelle diverse fasi della giornata. Lo scattering di Rayleigh è anche responsabile del "rosso di sera": la luce rossa riesce a superare le particelle atmosferiche più piccole e prosegue la sua corsa senza cambiare direzione. La lunghezza d'onda della luce blu, al contrario, ha dimensioni confrontabili con quelle delle molecole d'aria, di vapore e di polvere e viene sparpagliata in tutte le direzioni. Nel 1911 fu Albert Einstein a riconoscere in queste molecole i veri responsabili del fenomeno della diffusione.
Monet ha lavorato analogamente anche su un altro soggetto, molto diverso dai covoni per tipologia e complessità. Ne ho sentito parlare per la prima volta a Cagliari, nel 2006, quando il fisico Paolo Di Trapani venne illustrare il lavoro svolto da Monet dal 1892 al 1894: i 50 dipinti che ritraggono la cattedrale di Rouen.
Monet: La cattedrale di Rouen.
Di Trapani illustrò il fenomeno su invito dall'associazione culturale Tascusì (di Rossana Luisetti) e alle parole affiancò splendide immagini e un'intera mostra Di luce in luce (divisa in tre stanze: Il colore del cielo, La luce del cielo e del sole, La luce nell'arte). Ringrazio Paolo per la sua opera di divulgazione (che a distanza di 7 anni mi affascina ancora) e Rossana per aver organizzato quella straordinaria manifestazione: Art&Scienza.

Andrea Mameli Blog Linguaggio Macchina 8 Agosto 2013

P.S. Dopo aver letto questo post Rossana Luisetti mi ha spedito una foto che ritrae rotoballe francesi, scattata a metà mattina il 30 Giugno 2013 (in Provenza). Anche in questo caso le ombre appaiono nere. 
Ma ora l'idea è di aprire la caccia all'ombra azzurra: speditemi le vostre foto all'indirizzo del blog Linguaggio Macchina: blog.linguaggio.macchina@gmail.com specificando il nome di chi l'ha scattata, la data e il luogo.
Rotoballe provenzali. Foto: Rossana Luisetti.



07 agosto 2013

Caves: storie di astronauti dell'ESA nelle grotte sarde

"Caverne frequentate 10 mila anni fa dai sardi del neolitico. Poi rifugio per animali selvatici e latitanti imprendibili. Oggi richiamo internazionale per speleologi e scienziati".
Scrivevo così 5 anni fa (Astronauti a Su Bentu. Dalle viscere della Terra allo spazio, L'Unione Sarda, 15 agosto 2008) per illustrare i corsi dell'ESA che si svolgono nella grotta carsica Su Bentu, una cavità di 15 km, in parte inesplorata, con la collaborazione del Soccorso Alpino e Speleologico e della Federazione Speleologica Sarda. La grotta sarda è stata scelta dall’Advanced Training Solutions di Pesaro, la società incaricata dall’ESA per coordinare l’addestramento degli astronauti. I corsi hanno lo scopo di simulare alcune condizioni tipiche del lavoro nella stazione spaziale internazionale (spazi ristretti, pochi rumori), di abituare gli astronauti a prendere nota di tutte le attività (anche fotografando e campionando le forme di vita incontrate in grotta) e aiutano a migliorare l'affiatamento all'interno del gruppo. Un altro elemento di valore di questo tipo di spedizione è il debriefing quotidiano, indispensabile per analizzare errori e successi, in stretta analogia con quanto accade nel volo spaziale.

Ieri popsci.com (il sito della rivista Popular Science) Big Pic: Astronauts Practice For Space In An Italian Cave ha pubblicato due splendide foto, scattate nel mese di giugno, che ritraggono gli astronauti in grotta. Popsci non dimentica che l'anno scorso gli astronauti hanno scoperto una nuova specie di crostaceo (simile al porcellino di terra o Armadillidium vulgare).
Le immagini sono tratte dal nuovo blog dell'agenzia spaziale europea dedicato alle esercitazioni in grotta: CAVES (Cooperative Adventure for Valuing and Exercising human behaviour and performance Skills).

Acanto al blog il progetto CAVES ha anche un canale flickr per le foto, youtube per i video e un profilo Twitter. Consiglio di scaricare il libretto illustrato Caves: training for space [Pdf].

Andrea Mameli blog Linguaggio Macchina 7 Agosto 2013




06 agosto 2013

L'Internet delle Cose, Internet di Qualsiasi Cosa. Un questionario by Paraimpu

Invito i lettori di Linguaggio Macchina a dedicare 3 o 4 minuti per compilare un questionario sulla Internet of things o IoT. Perché? Ma perché potrebbe essere utile, no? Non sapete cos'è la Internet of Things? Niente paura, leggete qui: Se la caffettiera parla con un coniglio: è il paradigma di Paraimpu. Social tool e fantasia (Linguaggio Macchina, 27 Settembre 2011)...
Le domande sono facili facili (Che tipo di utente Web sei? Quali "oggetti" che si connettono al Web compreresti volentieri?) e possono farci scatenare la fantasia (Se potessi acquistare o avere in regalo una lampada che si connette al Web, a cosa e come vorresti reagisse? Quali funzionalità ti piacerebbe avesse? Tenendo conto anche delle tue esigenze, quali oggetti ti piacerebbe poter connettere al Web in un prossimo futuro?). Pensateli come 3 o 4 minuti, anche divertenti, dedicati a qualcosa di potenzialmente molto utile.

Ho posto due domande e mezza a uno degli ideatori del questionario - gli sviluppatori del progetto Paraimpu - Antonio Pintus.

Perché avete deciso di organizzare questa inchiesta sulla conoscenza e l'utilizzo della IoT?
«Per capire quanto l'IoT sta permeando e raggiungendo le persone e quanto se ne parla. Se conoscono Paraimpu, Arduino e quale idea si son fatti di questo mondo».
Che tipo di riscontri state ottenendo?
«Dell'IoT iniziano a parlarne in tanti e diverse persone hanno una idea più che buona delle opportunità».
 
Dove pubblicherete i risultati?
«Non abbiamo ancora deciso. Probabilmente sul blof di Paraimpu».

Andrea Mameli Blog Linguaggio Macchina, 6 Agosto 2013 


05 agosto 2013

Esperimenti con la carrucola al Muse


Carrucola a disposizione per esperimenti spontanei, MUSE (Trento, 27 Luglio 2013).
Foto: Linguaggio Macchina.