Per i ricercatori il data sharing, il social networking e l'open access sono tutte declinazioni dello stesso bisogno

Andrea Rinaldi [Foto: Marco Mameli, 2013]
Andrea Rinaldi, Professore Associato di Biochimica all'Università di Cagliari, è molto attento a comunicare i risultati della ricerca. Anzi, è interessato a tutto ciò che gira intorno alla science communication e scrive su varie riviste e siti web a proposito di open access, life sciences, global health e development.
Insieme a lui (e a Elisabetta Marini) nel 2008 abbiamo organizzato il Master in Comunicazione della Scienza dell'università di Cagliari. Ora stiamo osservando le relazioni fra i ricercatori e tre mondi collaterali: il data sharing, il social networking e l'open access.
Su questi temi Andrea ha pubblicato recentemente un articolo molto interessante: Spinning the web of open science e così ho pensato di porgli alcune domande.

Andrea, come nasce Spinning the web of open science?
«Da tempo tenevo sott'occhio queste attività, in particolare i social media 'riservati' ai ricercatori, come Academia.edu e ResearchGate. Come biochimico, io stesso sono presente in questi network. La curiosità è stata esplorare quanto fossero diffusi tra i ricercatori, insieme a strumenti più classici come Facebook e Twitter, e la loro utilità per la comunità scientifica, o almeno quella percepita da chi è stato 'preso nella rete'. Partendo da qui, ho poi allargato l'orizzonte a comprendere un altro tassello fondamentale dell'open science oggi veramente al centro dell'attenzione internazionale, cioè il 'data sharing', o 'open data', ovvero la condivisione dei dataset sottostanti ogni ricerca, che nella maggior parte dei casi rimangono nei pc dei ricercatori e non vengono resi disponibili alla comunità scientifica. In pratica, i dati grezzi derivanti dal lavoro sperimentale, fondamentali per il riuso e riproducibilità dell'evidenza sperimentale, e in generale per l' avanzamento della scienza.»
A quali conclusioni sei giunto?
«Come tutto ciò che è scienza e dintorni oggigiorno, anche il discorso intorno all'open science è molto fluido. Ci sono pulsioni fortissime ed oramai inarrestabili che vengono dal sottosuolo, dalla base, da chi la scienza la fa e la vuole vedere distribuita e fruibile senza restrizioni. Quindi, il data sharing, il social networking e l'open access, per i ricercatori sono tutte declinazioni dello stesso bisogno. I social media, in particolare, sono gli ultimi arrivati sulla scena, e la loro diffusione all'interno della comunità scientifica è ancora limitata. Ma le prospettive di crescita sono immense, sia per quanto riguarda la comunicazione dei ricercatori tra loro che per le attività di outreach. Come dice Christie Wilcox: “Scientists need to be engaged in new media platforms because everyone else is already talking about their thoughts and feelings, having discussions about things they care about, and generally—as the name implies —being social.»
Come ritieni che si potrà affrontare il problema dell'analisi della web reputation?
«La possibilità di misurare la 'reputation', e quindi di dare il giusto credito a chi rende disponibile il proprio lavoro, è un aspetto fondamentale dell'open science. Anche in questo caso, è evidente che le cose stanno cambiando rapidamente. Il vecchio schema di pubblicare su riviste giudicate come più o meno 'cool' in funzione dell'impact factor è oramai superato. Richard Price, CEO di Academia.edu, ritiene che il misurare le citazioni di ogni articolo per valutarne l'impatto debba essere integrato dalla cosidetta 'readership metrics', cioè dall'osservare quante volte un articolo è stato letto e scaricato, e da chi. Per quanto riguarda i dati, Scientific Data, una nuova rivista del Nature Publishing Group che sta per essere lanciata, si propone di offrire ai ricercatori la possibilità di diffondere in modo open i propri dataset ricevendo in cambio citazioni e un incremento della loro reputazione, incentivando dunque la pratica del data sharing.»
In che direzione si muove l'evoluzione dell'open science?
«Penso che sia impossibile tornare indietro. L'unica direzione possibile è un incremento dei materiali a libera diffusione, appunto, 'open'. Interessanti alcuni avvenimenti recenti, come l'obbligo da parte di chi riceve dei grant NIH di rendere disponibili i propri lavori derivanti dall'utilizzo di questi fondi al più tardi 12 mesi dopo la pubblicazione, e la comparsa di eLife, una nuova rivista open access scaturita dalla partnership tra istituti di ricerca e agenzie finanziatrici la ricerca stessa, escludendo quindi i publishers. Detto questo, non credo comunque che tutto questo porterà alla scomparsa delle grandi riviste che fanno pagare l'accesso ai loro 'prestigiosi' articoli (tanto per intenderci, Nature, Science, Cell, et cetera). Qualcuno spera ardentemente che questo avvenga, ma credo che la reputazione legata a queste riviste resisterà alle ondate dell'open science. Anche perché chi pubblica queste riviste si è da tempo fatto furbo, per così dire, ed ora offre (ovviamente facendosi ben pagare) ai propri autori la possibilità di pubblicare i propri articoli in versione open. Penso quindi che alla fine ci sarà una forma di convivenza, più o meno pacifica. Il data sharing crescerà in modo esponenziale in brevissimo tempo.»

Andrea Mameli 
blog Linguaggio Macchina 
8 Aprile 2014

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