03 settembre 2016

Scosse e riscosse. Disegnare e raccontare può aiutare a elaborare i traumi causati dal terremoto

Scosse e riscosse è un bellissimo volume pubblicato dalla casa editrice Ericksonn nel 2010. Il libro, frutto di una brillante iniziativa della Fondazione Marilena Ferrari: "L’Officina Adamo da Rottwei", un laboratorio che ha coinvolto alcuni studenti dell'Aquila, assistiti dai maestri artigiani che lavorano per la Casa editrice d’arte Marilena Ferrari-FMR e da un gruppo di psico-pedagogisti coordinati da Marco Dallari (docente di Pedagogia generale all’Università di Trento).
In questo modo i bambini abruzzesi reduci dal terremoto del 2009 sono stati aiutati a superare i traumi attraverso la produzione di storie e di immagini.
Il senso dell'operazione lo spega Marco Dallari, curatore del volume: «La produzione di narrazioni e di immagini, la raccolta e la conservazione di reperti e frammenti di memoria, il rendersi conto di essere in grado di raccontare e commentare ciò che è accaduto, condenendo e controllando l'emozione, trasforma il dramma in una risorsa dolorosa, ma anche preziosa, di esperienza, di uno strumento di rinascita e di crescita individuale e collettiva. I musei dell'Olocauto,  le poesie e i romanzi di guerra, il Vajont raccontato da Marco Paolini, Guernica di Picasso, Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, ma anche le foto e gli oggetti conservati dalle persone defunto che vengono guardati insieme e commentati da amici e familiari per accettare la morte e, come si può, farne tesoro, sono proprio questo: esperienze di elaborazione, a volte più intime, a volte più allargate e collettive.»
Marilena Ferrari, scomparsa a Bologna il 25 Dicembre 2012, così descriveva i concetti alla base del progetto "ri-scossa": «In situazioni di emergenza e di dolore si rischia spesso di dimenticare quesi aspetti dell'esistenza umana, ritenendo, a torto, che arte e bellezza siano quasi un lusso e che ci siano questioni più urgenti - e giustamente - da risolvere. Tuttavia, a nostro parere, il valore e la qualtà della vita personale devono restare legati alla gioia dello sguardo e alla volontà di "fare bene" in maniera creativa per non deprimersi o rassegnarsi, ma per continuare ad avere voglia di vivere e di ricostruire.»

Andrea Mameli, Linguaggio Macchina, 3 Settembre 2016






01 settembre 2016

La mummia racconta. A 25 anni dalla scoperta di Ötzi (1 settembre 2016)

C’è chi lo indica freddamente come La Mummia. Chi, ancor più gelido, lo chiama Iceman. Per i più è noto come Ötzi, che in Sardegna suonerebbe Ziu o Tziu. Lui non si scompone, forse perché un quarto di secolo non è niente dopo 5 mila anni trascorsi nel ghiaccio.
Sono già passati 25 anni da quel 19 Settembre 1991 quando due turisti tedeschi scoprirono Ötzi durante un’escursione sulle Alpi Venoste, ai piedi del ghiacciaio del Similaun, e il valore di questo reperto è sempre più grande. Lo testimoniano quei 4 milioni e mezzo di persone che hanno visitato il Museo Archeologico dell’Alto Adige dal giorno dell’inaugurazione, avvenuta il 28 Marzo 1998. 
Questo 25-esimo compleanno della mummia umida più antica del mondo, è importante anche dal punto di vista scientifico. Basti pensare al numero di ricercatori che si hanno studiato Ötzi, più di 700, e al numero di pubblicazioni scientifiche che lo riguardano: oltre 800. Inoltre giova ricordare che a Bolzano nel 2007 è nato un centro di ricerca intorno all’uomo venuto dal ghiaccio, l’Istituto per le Mummie e l'Iceman (EURAC), che dal 19 al 21 Settembre organizza il terzo congresso internazionale sulle mummie: “Ötzi: 25 anni di ricerca”.
Ne abbiamo parlato con Albert Zink, paleopatologo, direttore dell’EURAC e autore di un libro che spiega l’importanza che le mummie rivestono per la scienza e per la cultura: “Ötzi, Tutankhamon, Evita Perón. Cosa ci rivelano le mummie” (Il Mulino, 2016). Questi corpi che sfidano la morte, per volontà di altri umani o per cause naturali, “ci permettono – scrive Zink – di affondare lo sguardo nel passato e in particolare nelle condizioni di vita dei popoli antichi”.
Il vostro centro di ricerca, costruito intorno a Ötzi, ha prodotto numerose ricerche, ma cosa resta ancora da fare?
«Stiamo per pubblicare un nuovo studio sul contenuto dello stomaco di Iceman, ma c'è ancora tanto da scoprire, per esempio sull’alimentazione al tempo di Ötzi, sui batteri che lo abitavano. Questa mummia è unica per età e tipologia, ma alcune tecniche si possono applicare anche alle altre, che si trovano prevalentemente in Egitto e in Sud America, anche in collaborazione con altri centri di ricerca. Il genoma che abbiamo presentato nel 2012 fu il primo pubblicato di una mummia e ora è necessario sequenziarlo di nuovo, per studiare meglio la predisposizione ad alcune malattie e per specificare con maggiore precisione la sua posizione all’interno delle popolazioni europee. Resta anche molto lavoro da fare sul fronte della conservazione di questo genere di reperti.»
Lo studio più recente?
«Quello sul vestiario: il valore di questa mummia è dovuto anche a quello che aveva intorno. Normalmente le mummie provengono da sepolture e sono circondate da oggetti e indumenti scelti appositamente. In questo caso invece siamo di fronte a una persona morta, e sepolta dal ghiaccio, in una giornata della sua vita. Abbiamo studiato che animali avevano usato per i vestiti, per la faretra e per altri oggetti.»
E la storia della parentela con i sardi?
«Mentre l’analisi del DNA mitocondriale indica che la linea materna si è estinta, lo studio del cromosoma Y, quello che si eredita dal padre, ha mostrato che la linea genetica paterna è ancora presente in Europa, ma in una frequenza molto bassa, tranne in Sardegna e Corsica. Ciò significa che in queste due isole si è mischiata meno, ma non consente di identificare una parentela diretta con Ötzi.»
Quanto conta per voi la diffusione della conoscenza?
«Per noi è importante far capire i risultati delle nostre ricerche e in questo abbiamo ottimi rapporti con il Museo di Bolzano che aggiorna progressivamente le informazioni esposte in base ai nostri risultati.»
Andrea Mameli
(articolo pubblicato nella pagina della cultura del quotidiano L'Unione Sarda, 1/9/2016)

28 agosto 2016

Terremoto e stress post trauma. Una nota dell'Istituto di fisiologia clinica Ifc-Cnr di Pisa

Una nota dell'Istituto di fisiologia clinica Ifc-Cnr di Pisa dedicata allo stress causato dal terremoto. Rischi psicologici, casistica e consigli per affrontare il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS).

Quali sono gli effetti e i rischi psicologici provocati dal terremoto? 
Le calamità naturali come il terremoto che ha colpito l’Italia nei giorni scorsi sono eventi che superano l'ambito della normale esperienza e che quindi, dal punto di vista psicologico, rappresentano traumi tali da indurre stress in chiunque li abbia vissuti. Come è comprensibile, essere travolti da un evento di questo tipo mette a durissima prova le nostre capacità di adattamento e la nostra salute psicologica, sebbene le reazioni di stress vengano considerate una reazione normale a eventi eccezionali. Fondamentalmente, i rischi per la sfera psicologica sono legati all’insorgenza di patologie, spesso gravi, conseguenti alla cronicizzazione della paura, che diventa angoscia quando l’evento sismico non si esaurisce in breve ma si protrae nel tempo. Una simile sollecitazione emotiva innesca una serie di effetti tipicamente legati all’esposizione cronica di stress, quali modificazioni dei livelli ormonali (cortisolo e catecolamine, nelle donne anche gli estrogeni), alterazioni del sonno e, nel lungo termine, variazioni cardiovascolari associate a un maggior rischio di sviluppare ipertensione, tachicardia e talvolta infarto del miocardio. Tutto questo crea una via preferenziale per l’insorgenza di patologie come la depressione e il Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS). Inoltre è necessario distinguere tra la percezione dello stress degli adulti e dei bambini, dato il differente approccio con cui vivono un’esperienza così traumatica e le diverse terapie a cui dovranno essere sottoposti.
Quali emozioni innesca il terremoto nelle popolazioni che lo subiscono?
Il terremoto produce nelle persone uno choc emozionale intenso, tipicamente scatenando ansia, paura e attacchi di panico. L’ansia è generalmente un’emozione a due facce: da un lato può spingere l’individuo a dare il massimo mediante una serie di processi dinamici neurali, fisiologici, comportamentali e cognitivi che portano all’adattamento; dall’altro può limitare l’esistenza dell’individuo stesso inducendo alterazioni neurali, fisiologiche, comportamentali e cognitive che aumentano la vulnerabilità a manifestare patologie.
Alcuni studi hanno dimostrato come, anche in situazioni drammatiche come sopravvivere a un terremoto, le vittime possano sperimentare emozioni positive, altrettanto intense e persistenti di quelle negative. E’ noto infatti che l’esposizione ad eventi avversi provoca una vasta gamma di reazioni psicopatologiche; tuttavia, non è così chiaro come l’esistenza di emozioni positive possa in qualche modo ridurre o mediare l’impatto del trauma. Studi specifici sull’adattamento allo stress hanno dimostrato come i fattori di personalità relativamente stabili, ad esempio la felicità e l’ottimismo, possano mediare gli effetti negativi dello stress. A questo proposito, evidenze sperimentali indicano che, di fronte a eventi di vita negativi, persone che in precedenza hanno avuto esperienze positive, attingevano da questo “bagaglio emotivo” per poter esercitare un tale controllo psicologico in modo da adattarsi allo stress, ed esibendo una minor vulnerabilità a sviluppare le classiche patologie stress-correlate.
Inoltre, per meglio comprendere l’impatto di un terremoto sulla sfera emotiva, è necessario conoscere le alterate funzioni cerebrali evidenti già nelle prime fasi dell’adattamento al trauma. Studi in modelli animali dell’impatto dello stress acuto e cronico, hanno evidenziato cambiamenti fisiologici e morfologici in molte regioni cerebrali, in particolare nell’amigdala, nell’ippocampo e nella corteccia prefrontale. Questi risultati sono coerenti con quanto riscontrato in uno studio umano condotto nei sopravvissuti al terribile terremoto di magnitudo 8.0 che sconvolse una zona della Cina nel 2008, in cui si monitorò la funzionalità cerebrale per mezzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI). Rispetto ai controlli, i sopravvissuti mostravano, già 25 giorni dopo l’evento, un’iperattività a livello del sistema limbico e della corteccia pre-frontale e un’attenuata connettività funzionale nelle aree limbiche frontali e nelle regioni striatali, notoriamente coinvolte nel processa mento delle emozioni.
L’esposizione a fattori di stress di natura così intensa, oltre a modificazioni di funzionalità cerebrale, innesca, nel giro di pochi minuti, anche alterazioni a livello molecolare, in particolare a carico delle proteine c-fos e NGF e predisponendo così allo sviluppo della sintomatologia depressiva e del Disturbo Post Traumatico da Stress.
Che tipo di assistenza psicologica è necessaria?
Innanzitutto occorre fare una prevenzione primaria, in cui si mette l’individuo in condizioni di conoscere le proprie emozioni e saper controllare gli effetti che queste hanno sul comportamento e sulla salute psicologica, attraverso una formazione specifica con l’aiuto di corsi e tecniche da attuarsi ovviamente in periodi precedenti al disastro.
Riuscire ad educare la nostra mente e il nostro corpo mediante ad esempio la meditazione, ci permetterebbe di controllare le nostre emozioni, le nostre ansie e paure in modo da essere in grado di adattarci anche a situazioni drammatiche quali sono gli eventi sismici.
Ad una prevenzione primaria, deve seguire una prevenzione secondaria, in cui vengono programmati interventi di sostegno psicologico, successivi all’evento sismico, per sostenere le persone colpite dalla reazione acuta di stress (attacco di panico), evitando così che questo si trasformi in un disturbo post-traumatico da stress, ad esempio mediante centri di ascolto post-emergenza.
Dal momento che ad un evento traumatico è spesso connesso un particolare livello di stress. Cosa accade quando una persona soffre del Disturbo Post Traumatico da Stress (DPTS)?
Numerosi dati della letteratura confermano come un disastro naturale, produca un elevato stress con conseguenze a lungo termine, di carattere sia fisiologico che psicologico, e sintomi residui post-traumatici soprattutto nei soggetti più giovani. In particolare, studi recenti mostrano come l’esposizione ad un evento traumatico aumenti maggiormente la vulnerabilità a sviluppare il Disturbo Post Traumatico da Stress nelle donne rispetto agli uomini. Questo dato è supportato anche da evidenze sperimentali ottenute in una ricerca condotta negli individui sopravvissuti all’attacco terroristico alle Torri Gemelle e ai terremoti in Molise nel 2002 e dell’Abruzzo nel 2009 che mostra come circa la metà dei soggetti studiati sviluppavano questa patologia. E’ importante tenere conto le differenti modalità individuali di risposta al trauma, e il fatto che ogni reazione soggettiva deve essere analizzata anche in termini oggettivi sulla base delle caratteristiche del trauma stesso, quali ad esempio l’imprevedibilità e l’intensità. Ovviamente, più un trauma è grave e persiste nel tempo, più intense e durature saranno le conseguenze sull’individuo. Generalmente, la persona affetta da DPTS tende a “rivivere” l’evento traumatico, perdendo improvvisamente il contatto con la realtà e arrivando a provare un disagio ed un terrore molto intensi. Talvolta, si possono manifestare delle vere e proprie amnesie legate all’evento sismico, correlando questo senso di evitamento ad una certa difficoltà di provare emozioni (amnesia emotiva); nelle situazioni più gravi si possono verificare comportamenti di autolesionismo e tentativi di suicidio legati alla visione totalmente negativa del futuro.
Solitamente, queste reazioni psicofisiologiche possono manifestarsi mesi o anni dopo l’evento traumatico, sebbene mediamente la comparsa dei primi sintomi si registra a partire dal secondo e terzo mese successivo al trauma. L’intervento precoce sui sopravvissuti a un trauma come il terremoto, indipendentemente dalla presenza di una diagnosi di DPTS, dovrebbe essere quindi un obiettivo primario nell’ambito di un programma di Salute Pubblica, attuando una terapia immediata per evitare negli anni l’instaurarsi di patologie psicosomatiche (cardiovascolari, immunitarie, gastroenteriche, nervose e metaboliche) e psicologiche (ansia, depressione e schizofrenia) stress-correlate.
Quali sono i consigli per affrontare questo disturbo?
Sicuramente non bisogna far passare troppo tempo, ma occorre cominciare una terapia il prima possibile dall’insorgenza dei sintomi. In particolare, in questi casi viene utilizzata la terapia cognitivo-comportamentale, che prevede l’inizio della cura nei primi giorni successivi al trauma. L’obiettivo è quello di aiutare ad elaborare la tragedia e a “incanalare” le emozioni, in modo da arrivare lentamente a non viverle più. Di solito viene effettuata direttamente “sul posto” da un’équipe di psicologici specializzati negli interventi immediati; nonostante la terapia, in alcuni soggetti il trauma psicologico può persistere o addirittura peggiorare trasformandosi in cronico.
La triste storia degli ultimi anni, dai terremoti che hanno colpito l’Aquila, l’Emilia Romagna fino a quello dei giorni scorsi, e dato il rischio sismico in buona parte dell’Italia, ci portano a non poter, né a dover non prendere in considerazione l’importante ruolo dello psicologo dell’emergenza sia in condizioni di calamità naturali che in quelle legate ad attacchi terroristici. La Psicologia dell’emergenza rappresenta un ampio insieme di contributi diversi della psicologia, dalla Psicologia clinica, Psicologia sociale, fino alla Psicologia di comunità e della salute, finalizzata a comprendere i processi psicologici, sia psicofisiologici, cognitivi, emotivi, che comportamentali, attivati in tali condizioni. Tutto questo ovviamente senza trascurare gli esiti nel breve e nel lungo termine che andranno inevitabilmente ad incidere sulle capacità di adattamento e sul benessere delle persone e delle comunità colpite. Gli interventi dovranno essere indirizzati sia alle persone coinvolte direttamente nell’evento, che i soccorritori che a loro volta hanno vissuto in prima persona o meno gli eventi critici verificatisi.
In generale, dal punto di vista psicologico, le due categorie più a rischio sono soprattutto i bambini e gli anziani; in questo caso, si devono predisporre delle strategie da adottare individualmente. Nel caso dei bambini, per esempio, si continua con la psicoterapia, che viene praticata anche sui genitori e sugli insegnanti, in modo da creare una vera e propria rete attorno al piccolo, per aiutarlo nella guarigione. È un lavoro da portare avanti con delicatezza, ma senza perdere tempo. Ci sono studi che, nei bimbi vittime di traumi importanti, hanno evidenziato il pericolo di un ritardo nello sviluppo fisico e cognitivo, difficile da recuperare se non si interviene subito.