Futuro, lavoro, giovani. Parole incerte e opere possibili (Il lavoro che vuole la Sardegna, ottobre 2017)

Futuro, lavoro, giovani. Parole incerte e opere possibili
(Il lavoro che vuole la Sardegna, ottobre 2017) 

Se dovessimo indicare con un solo aggettivo la cifra principale del tempo attuale forse quello più adatto sarebbe incerto. Ma non è solo l’incertezza il tratto tipico dell’oggi: è necessario sottolineare la rapidità dei processi di cambiamento e di trasformazione.
Lo ha fatto anche Papa Francesco in Laudato_sì (cap. 18): «La continua accelerazione dei cambiamenti dell’umanità e del pianeta si unisce oggi all’intensificazione dei ritmi di vita e di lavoro, in quella che in spagnolo alcuni chiamano “rapidación” (rapidizzazione). Benché il cambiamento faccia parte della dinamica dei sistemi complessi, la velocità che le azioni umane gli impongono oggi contrasta con la naturale lentezza dell’evoluzione biologica.»
E più recentemente sempre Papa Francesco, si rivolge al mondo in questi termini: «Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita.» Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, 2013 (cap. 70).

Se già nell’enciclica sociale di Papa Leone XIII del 1891, Rerum Novarum, si iniziano a prendere in considerazione «i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria», è nell’enciclica di Giovanni Paolo II del 1981, Laborem Exercens, che troviamo il primo vero elogio della tecnologia (definita in quel testo «alleata del lavoro»): «Non soltanto nell'industria, ma anche nell'agricoltura, siamo testimoni delle trasformazioni rese possibili dal graduale e continuo sviluppo della scienza e della tecnica.»
Tutto rose e fiori? Certamente no. Proprio Karol Wojtyła ha chiari anche i possibili rischi: «È un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell'uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro “soppianta” l'uomo, togliendogli ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae l'occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante l'esaltazione della macchina, riduce l'uomo ad esserne il servo.»
Nel 2009 Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate si spinge oltre e introduce la tecnocrazia tra i rischi dell’oggi, tempo dominato dall’avidità e dalla rapidità: «Riconosciamo pertanto che erano fondate le preoccupazioni della Chiesa sulle capacità dell'uomo solo tecnologico di sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli strumenti a disposizione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo. L'esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà.» (cap. 21).
E non finisce qui. Per Joseph Ratzinger «Lo sviluppo tecnologico può indurre l'idea dell'autosufficienza della tecnica stessa quando l'uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. È per questo che la tecnica assume un volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Anche quando opera mediante un satellite o un impulso elettronico a distanza, il suo agire rimane sempre umano, espressione di libertà responsabile. La tecnica attrae fortemente l'uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l'orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale. Di qui, l'urgenza di una formazione alla responsabilità etica nell'uso della tecnica.» (cap. 70)
Il nodo centrale è proprio questo: ogni processo di innovazione tecnologica può introdurre miglioramenti estremamente significativi nella vita delle persone ma nel contempo può contenere elementi negativi. Discernere in maniera obiettiva tra le opportunità e i rischi di questo processo è il principale obiettivo se si intende analizzare a fondo il tema del lavoro in un futuro (molto) prossimo. Gli esempi sono numerosi. Nella fabbrica più grande del mondo per numero di addetti, la Foxconn Electronics, che opera a Taiwan e assembla gli Iphone per conto della Apple, l’introduzione dei robot nelle catene di assemblaggio ha portato alla riduzione degli operai da 110 mila a 50 mila.
L’interrogativo riverbera anche nella cosiddetta industria 4.0 termine coniato dalla National Academy of Science and Engineering in Germania (ribattezzato recentemente in Italia impresa 4.0) viene intesa la gamma di trasformazioni, causate dall’unione di digitalizzazione e automazione, che stanno investendo tutti i settori dell’economia: comunicazione, produzione, trasporti e consumi. Anche questo nuovo scenario è fatto di pro e contro. Pro: migliore ergonomia dei processi produttivi e più efficienza. Contro: gli umani rischiano di essere ridotti a semplici controllori delle attività svolte dai robot.
Su questo punto interviene con estrema attenzione l’Instrumentum laboris della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani: “Si tratta allora di sviluppare algoritmi di verifica indipendenti (cioè, affidati ad enti terzi certificatori) che, quantificando e certificando questa capacità di intuizione, intelligibilità, adattabilità e adeguatezza degli obiettivi del robot, tutelino la persona e il suo valore negli ambienti misti uomo-robot.” [Instrumentum Laboris].

Il dubbio è di quelli facili da porre ma non altrettanto da risolvere: l’automazione e la robotizzazione creano tanti posti di lavoro quanti ne cancellano? Non solo è la principale preoccupazione con la quale Barack Obama ha dato addio alla Casa Bianca, ma è anche un punto centrale del rapporto McKinsey 2017 A Future that Works: Automation, Employment, and Productivity il 49% dei lavori svolti oggi nel mondo potrebbe essere a rischio per colpa dell’automazione. Per decenni le tecnologie si sono limitate a sostituire la forza fisica o a migliorare la rapidità di esecuzione, ma l’intelligenza artificiale ci porterà presto macchine in grado di sostituire complesse funzioni concettuali. Già ora nel campo del pattern recognition (il riconoscimento delle forme) stanno vincendo le macchine, noi umani restiamo imbattibili nella creatività e in quella che viene denominata care economy (le professioni orientate a soddisfare i bisogni sociali, come la cura delle persone anziane e quelle con disabilità).
E la cosiddetta economia delle piattaforme o gig economy in tutto questo che ruolo gioca? Questo sistema di intermediazione, definito da alcuni “l’economia dei lavoretti”, si basa sulla gestione avanzata (e in gran parte automatizzata) dei dati, allo scopo di fornire un luogo (digitale) entro cui garantire i contatti tra domanda e offerta, che consente di effettuare prestazioni di lavoro in maniera quasi del tutto svincolata dalla distanza (e in alcuni casi anche dalla sincronizzazione temporale) e permette di erogare compensi basati su tariffe stabilite preventivamente.
Si tratta generalmente di lavori da svolgere in ritagli di tempo, a casa, con poche risorse, da cui l’appellativo di lavoretti. La visione critica sottolinea che la precarietà è il connotato principale di queste prestazioni, unitamente all’assenza di tutele, alla scarso o nullo riconoscimento dello status di lavoratore, alla quasi completa assenza di certificazioni di qualità, alla possibilità di essere esercitate completamente in nero.
Qui si affaccia ancora una volta un monito dell’enciclica Laudato sì (cap. 20): la ricerca del profitto a breve termine e l’introduzione non ragionata della tecnologia possono portare verso la cultura dello scarto. Uno scarto non più delle merci, ma delle persone e delle loro competenze.

Secondo il rapporto McKinsey con le tecnologie attuali solo 5 mestieri sono destinati a essere totalmente sostituiti dalle macchine, e la metà di tutte le attività retribuite potrebbe essere potenzialmente automatizzata. Lo studio conferma un dato che da sempre accompagna l’automazione: accanto alla scomparsa di posti di lavoro si registrerà una crescita della produttività a livello globale con un tasso compreso fra 0,8 e 1,4% all’anno.
L’innovazione di prodotto, quella che migliora e avvicina sempre più i prodotti alle esigenze dei consumatori, in generale, a parità di fattori produttivi, apporta un aumento della domanda (da cui discende spesso un incremento occupazionale) e del reddito (che generalmente si traduce in aumento del benessere delle persone).
L’innovazione di processo, ovvero i cambiamenti dei processi produttivi che puntano al miglioramento dell’efficienza della catena produttiva, portano a ridurre il fabbisogno di fattori produttivi e questo spesso si traduce in calo dei posti di lavoro.
L’ottimismo della ragione ci porterebbe a considerate che per ogni posto di lavoro cancellato vi è qualcosa che viene creato (più ricchezza, nuove necessità di competenze). Ma il sano realismo ci spinge a temere che i posti cancellati potrebbero essere anche quelli che richiedono nuove (e in molti casi maggiori) competenze.
Allora cosa dobbiamo consigliare ai nostri figli? Non solo di essere competenti. Ma anche di essere pronti ad adattarsi ai cambiamenti. In quest’ottica i settori ritenuti più pronti alla crescita sono quelli legati alla care economy, alla prevenzione ambientale, alla riqualificazione delle periferie urbane, all’integrazione etnica e culturale, alla gestione della sicurezza. Senza dimenticare la valorizzazione del patrimonio culturale e la sua fruizione e accessibilità e la ricerca scientifica, in tutti gli aspetti legati alla salute, all’energia e alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: big data, blockchain e criptovalute (sistemi decentralizzati per registrare le transazioni e garantirne l’immutabilità nel tempo, eliminando la necessità di terze parti che autorizzino le transazioni stesse); la Internet of Things (l’internet delle cose) che si sta trasformando nell’internet di tutte le cose (Internet of Everything). L’elettronica indossabile. La realtà aumentata.
Ma, come consiglia lo stesso Papa Francesco in Laudato sì (cap. 15) per «dare una base di concretezza al percorso etico e spirituale» è indispensabile pensare anche al lavoro “non tecnologico”. Ed ecco che l’agricoltura, non necessariamente senza innovazione, può riacquistare la sua primaria posizione in seno alle professioni da consigliare ai nostri figli.
In fondo la questione non è se schierarsi tra gli apocalittici o gli integrati ma se si è in grado di comprendere i cambiamenti oppure no.
Se si è capaci di cogliere creativamente le opportunità nascoste dietro le crisi o se ci ferma immobili a guardarle.
Se si impara a trasformare le diversità in humus o se le si considera terra arida.

 
Andrea Mameli

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