Le razze non esistono: «Veniamo tutti dall'Africa» (15 Settembre 2015)

Pochi giorni fa in una grotta del Sud Africa sono stati portati alla luce 1.500 reperti fossili appartenenti a 15 individui di una nuova specie di ominidi. I ricercatori hanno chiamato la nuova specie Homo naledi e l'hanno descritta come dotata di alcune caratteristiche tipiche degli australopitechi, altre dei sapiens e altre mai viste prima in nessuna specie ominide. Questo ritrovamento renderà ancora più complessa la storia della nostra specie? O contribuirà a delineare meglio il puzzle evolutivo?
Gli antropologi spiegano che discendiamo dal gruppo umano che sessantamila anni fa partì dall’Africa, raggiunse l'Europa, dove c'erano i Neandertal, ed ebbe la meglio su tutte le altre forme umane preesistenti. Così all'interno della nostra spece, esistono e sono evidenti molteplici differenze, ma sono distribuite in modo continuo nello spazio geografico, così le caratteristiche di ogni popolazione si sovrappongono e sfumano gradualmente in quelle delle popolazioni vicine. Come si inserisce Homo naledi in questo scenario? Noi Sapiens siamo parenti della specie recentemente scoperta in Sudafrica o facciamo parte di rami evolutivi separati?
Ne abbiamo parlato con il genetista dell'Università di Ferrara Guido Barbujani, esperto di biodiversità umana e di DNA antico (ha studiato in particolare l'uomo di Cro-Magnon, gli Etruschi e i nuragici).
Barbujani, siamo parenti dell'Homo Naedi?
«Molto difficile dirlo finché non si riesce a stabilire l'età di questi fossili. I reperti erano sul pavimento della grotta e per questo non è possibile datarli geologicamente. Inoltre sono troppo antichi per essere datate con il Carbonio 14. Parlare dei nostri rapporti di parentela con questa specie è del tutto prematuro».
La scoperta riveste in ogni caso una notevole importanza?
«Non abbiamo altri umani fossili documentati così bene come questi. È importante continuare a studiarli. Si tratta di un ritrovamento molto intrigaante, perché non sappiamo ancora dove collocarlo esattamente: se molto arcaico dovremmo porlo alla base del nostro albero evolutivo mentre se fosse più recente allora vorrebbe dire che si è sviluppato quando i nostri antenati africani erano già abbastanza simili a noi. In merito all'importanza della scoperta aggiuno che i ricercatori guidati da Lee Berger, una volta riportati i resti in superficie, hanno organizzato due settimane di incontri con giovani studenti per raccogliere i loro commenti, evidentemente si partiva dal presupposto che fosse qualcosa di così nuovo e da studiare in maniera particolare. Inoltre National Geographic ha creato l'evento internazionale: tutto è stato seguito passo passo sui social media».
Perché siamo tutti africani?
«Perché tutti quanti tornando indietro nel tempo possiamo fare risalire la nostra genealogia a un gruppo di alcune di migliaia di africani, con un cranio e uno scheletro come il nostro, che 60 mila anni fa hanno abbandonato l'Africa e hanno colonizzato l'intero pianeta».
All'autore di "Sono razzista, ma sto cercando di smettere" possiamo chiedere qualche consiglio per guardare il mondo con più serenità?
«Potete chiedermelo ma non c'è l'ho. Possiamo forse dire che l'emigrazione secondo gli studi più seri durerà altri vent'anni e quindi dobbiamo attrezzarci per affrontarla e non sperare in un miracolo che ci porti a un passato che ormai è alle nostre spalle».
Su questo tema lei cita spesso il Manifesto degli scienziati razzisti del 1938. Cosa contiene? 
«In questo documento, in cui i cattivi scienziati fascisti definiscono gli italiani in quattro modi contraddittori fra di loro (ariani, italiani, mediterranei occidentali, europei), ci si scontra con le stesse contraddizioni che non sono riusciti a risolvere i pur bravi scienziati che nel corso di tre secoli hanno tentato invano di stabilire quali fossero le razze umane».
Lei spiega che le razze non esistono. Ma esiste il razzismo. C'è forse qualche ragione evolutiva che ci spinge a riconoscere "gli altri" e che fa scattare in noi reazioni negativa? 
«Forse sì visto che il fenomeno è così diffuso. Ma ci sono anche ottime ragioni sociali e culturali per combatterlo e vincerlo».
ANDREA MAMELI

Articolo pubblicato nella pagina della Cultura del quotidiano L'Unione Sarda il 15 Settembre 2015

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