25 luglio 2014

In cammino con l’autismo: 113 km, un papà, due figli e tanta determinazione.

Quei 113 chilometri percorsi a piedi hanno molti significati. Contengono la voglia di vedere applicata la Carta dei diritti per le persone autistiche, in particolare l'articolo 11 (il diritto a mezzi di trasporto accessibili e alla libertà di movimento) e l'articolo 12 (l'accesso ad attività culturali, ricreative e sportive e a goderne pienamente). E contengono il desiderio di sfidare i pregiudizi e di dimostrare che le condizioni di disabilità non possono impedire qualsiasi attività. Penso proprio che Pierangelo Cappai sia partito da Cagliari con uno zaino pieno di aspettative, il 2 Luglio, dando il via al progetto “In cammino con l’autismo”, patrocinato dall’associazione Diversamente Onlus, lungo un percorso sufficientemente collaudato: Santiago de Compostela. Per cercare di capire il senso di questa impresa Linguaggio Macchina ha intervistato Pierangelo Cappai, insegnante, Presidente e socio fondatore dell’Associazione Diversamente Onlus, sposato con Alessandra, Assistente Sociale, è papà di Federico, 13 anni e di Karola Teresina, 8 anni.


Com'è nato questo progetto?
«Premetto che sin dal momento della diagnosi ho sempre sentito l’esigenza di fare rete, di unirmi ad altri genitori per condividere l’esperienza, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti e sulle particolari esigenze delle persone con autismo e proprio per questo motivo sin dal 2007 ho contribuito a fondare, con altri genitori, l’Associazione Diversamente Onlus che ho l’onore di rappresentare essendo il Presidente. Con l’Associazione ci siamo spesso mossi in gruppo, sia per escursioni di una giornata che per veri e propri viaggi di più giorni anche all’estero. L’idea del viaggio è nata almeno un anno fa, doveva essere almeno inizialmente un’esperienza personale. Ho pensato poi di condividerla con uno scopo ben preciso o meglio con due obiettivi, il primo quello di far conoscere il più possibile la Carta dei Diritti delle Persone con Autismo, in particolare gli articoli riguardanti la mobilità e il secondo quello di dimostrare che anche nei casi di autismo a basso funzionamento o comunque con maggiori compromissioni non bisogna arrendersi, non bisogna fermarsi ma al contrario cercare di garantire loro il maggior numero di opportunità. Terminata la scuola le occasioni di socializzazione e integrazione si riducono notevolmente e se sin da piccoli non abituiamo i nostri figli e non ci abituiamo noi genitori ad affrontare anche situazioni in ambienti non strutturati e non protetti, il rischio dell’autoghettizzazione è molto alto.»

Come vi siete preparati?
«Federico sapeva da mesi della partenza, ha imparato a riconoscere alcune delle immagini tipiche del Cammino quali la Freccia Gialla, la conchiglia e alcuni pittogrammi che poi si trovano lungo il percorso. Questo lo ha aiutato molto. Per quanto riguarda la preparazione fisica, in realtà sarebbe dovuta essere maggiore, anche perché Federico è un ragazzo abbastanza pigro, che tende a non voler camminare e che molto spesso se decide di fermarsi e non proseguire è irremovibile. Durante tutto il cammino in ogni caso sono stati rispettati i tempi e le esigenze dettate principalmente da Federico, con frequenti pause e soprattutto nei primi giorni terminando il cammino dopo pochi chilometri.»

Quali sono state le principali difficoltà?
«La difficoltà principale è stata quella di prendersi cura di Federico 24 ore su 24, per la prima volta nessuno era li a darmi una mano, Federico necessita di assistenza continua e non è in grado di vestirsi o svestirsi, lavarsi etc. Di solito il carico assistenziale è ripartito e comunque durante la giornata ruotano attorno a lui diversi operatori, c’è il tempo scuola e tante attività; durante il cammino Federico non poteva essere lasciato solo nemmeno per andare alla toilette per esempio.»


Quali sono state le principali soddisfazioni?
«Le soddisfazioni sono state veramente tante, ma la più grande è stata quella di essere riuscito a portare a termine un progetto con Federico rispettando i suoi tempi e le sue richieste. Grande soddisfazione è stata poter toccare con mano tutto l’amore che Karola riserva al fratello, amore che magari quotidianamente, pur presente, passa quasi inosservato mentre nel cammino era visibile ad ogni passo, amplificato in contesto di calma e serenità e quasi fuori dal tempo che il cammino riserva a chi lo percorre.»

Cosa resta ora, a mente fredda, di quest'esperienza?
«Il legame padre figli, sia autistici che neurotipici. Come dicevo in precedenza l’assenza totale o quasi di vincoli temporali, almeno nel nostro caso, visto che non avevamo mete prestabilite o un numero di chilometri obbligatori da percorrere al giorno ci ha permesso di rispettarci molto a vicenda e di assecondare le esigenze di ognuno di noi. Ci rimane sicuramente il grande affetto e la premura dimostrata da tutti, ma proprio tutti, i pellegrini incontrati durante il cammino nei confronti di Federico e, cosa che mi ha stupito, il fatto che la stragrande maggioranza di loro avesse capito senza doverlo dire che Federico è un ragazzo autistico e che conoscessero l’autismo oltre i soliti stereotipi. Ci rimane il grande affetto che le tante persone che ci hanno seguito da casa ci hanno espresso durante e dopo il cammino.»

C'è qualcosa che in questi giorni nessuno vi ha mai chiesto e invece vi piacerebbe raccontare?
«Sì, mi piacerebbe che si desse più spazio ai fratelli, che sono spesso coloro che pagano il prezzo più alto dell’avere l’autismo in famiglia. Sarebbe bello chiedere loro più spesso come si sentono, cosa pensano dell’autismo e in che modo vivono la diversabilità del proprio fratello. Karola ha scelto di partecipare al cammino proprio per condividere questa esperienza con il fratello ed è stata, pur con il limite dei suoi quasi 9 anni, una presenza forte e a tratti quasi indispensabile partecipando a pieno titolo alla riuscita dell’iniziativa. Ma sarebbe bello sentire lei e capire cosa l’ha spinta a partecipare e cosa ha provato lungo i 113 km percorsi per arrivare a Santiago. Mi piacerebbe aggiungere poi che questo è stata solo una parentesi, piacevole, nel cammino quotidiano di una famiglia con un componente con autismo; il cammino ha tanti parallelismi con la quotidianità dove molto spesso le difficoltà sono anche maggiori e dove, contrariamente a quanto accaduto durante il cammino, spesso chi dovrebbe essere preposto a darti una mano ti rende più difficile il percorso. Quanto a qualche critica sulla spettacolarizzazione o sul fatto che “disgrazie di proporzioni immani” (parole testuali) come l’autismo dovrebbero essere vissute in silenzio rispondo dicendo che la spettacolarizzazione è negli occhi di chi lo osserva in quel modo e che per tanti altri si chiama invece condivisione, sul fatto poi di viverle in silenzio dico che il tempo dei silenzi e della vergogna è ormai tramontato.»

Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 25 Luglio 2014






SitGirl: quando i supereroi hanno la sedia a ruote

SitGirl racconta le avventure della supereroina che combatte contro i cattivi trazie ai superpoteri acquisiti in un incidente nucleare. Il fumetto, creato da Alessandro Casadio e Gabriele Naldi con la collaborazione dell’associazione culturale Minimalia, rompe gli schemi con ironia e autoironia. E conferma che il valore del fumetto può andare molto oltre il puro "intrattenimento": questa è per prima cosa una storia di lotta contro il pregiudizio.


Le quattro puntate della saga sono pubblicate dalla casa editrice Mandragora.

Un video illustra le origini del progetto:

24 luglio 2014

Lavorare in alta quota ha effetti cardiovascolari? Studio dell'Università di Milano-Bicocca e dell’Istituto Auxologico Italiano

Si chiama HIGHCARE (HIGH altitude CArdiovascular REsearch) Alps–Mont Blanc la spedizione di ricerca sulle reazioni dell’organismo al lavoro in alta quota organizzata dall’Università di Milano-Bicocca e dall’Istituto Auxologico Italiano in collaborazione con la l’Azienda USL Valle D’Aosta sui cantieri della nuova funivia del Monte Bianco. La spedizione parte domani per concludersi alla fine di agosto. È la prima volta che un così esteso programma di indagini cardiovascolari, respiratorie, ematologiche, neurologiche e vestibolari viene effettuato in un discreto numero di lavoratori a quote così alte, comprese tra i 2.200 e i 3.500 metri.
Saranno circa 50 gli operai coinvolti nell’indagine, distribuiti nella stazione di arrivo di Punta Helbronner a 3.500 metri (30 lavoratori) e nella stazione intermedia del Pavillon a 2.200 metri (20 lavoratori), tutti con un’età compresa tra 21 e 58 anni.
I lavori per la realizzazione della nuova Funivia del Monte Bianco, che collegherà Courmayeur a Punta Helbronner sono iniziati nell’aprile 2011 e termineranno nel 2015. I lavori sono svolti dal Consorzio Cordée Mont Blanc che ha messo i cantieri a disposizione della spedizione di ricerca.
I lavoratori saranno studiati sia a livello del mare sia in quota per valutare in primo luogo le risposte di pressione arteriosa, a riposo, nelle 24 ore e durante sforzo fisico e, più in generale, gli adattamenti cardiorespiratori e dell’apparato dell’orecchio interno (otovestibolare) ai quali vanno incontro. Oggi infatti esistono solo pochi dati sulle risposte di pressione arteriosa in persone che per ragioni professionali sono esposte per periodi intermittenti di tempo all’alta quota, né si conoscono a fondo le conseguenze cardiovascolari di questa esposizione. Mancano anche dati sull’effetto dell’altitudine sulla funzione dell’orecchio interno in queste condizioni.
Il gruppo di ricerca è formato dall’Università di Milano-Bicocca che partecipa con l’Unità di Medicina Cardiovascolare e con la Scuola di Specializzazione in Malattie Cardiovascolari, dirette entrambe da Gianfranco Parati, ordinario di malattie dell’apparato cardiovascolare del Dipartimento di Scienze della Salute, e con l’unità di medicina del lavoro, diretta da Marco D’Orso; dal Laboratorio di Ricerche Cardiologiche dell’Istituto Auxologico Italiano diretto sempre dal professor Parati e si avvale della collaborazione dell’ambulatorio di Medicina di Montagna dell’Azienda USL Valle D’Aosta, diretto dal dottor Guido Giardini e della consulenza del professor Piergiuseppe Agostoni dell’Università degli Studi di Milano/Centro Cardiologico Monzino, per la messa a punto dei test da sforzo cardiopolmonare.
«Alcune nostre ricerche svolte negli scorsi anni – spiega Gianfranco Parati – hanno dimostrato che l’esposizione, sia acuta che prolungata, alla carenza di ossigeno in alta quota induce un aumento di pressione arteriosa sia in volontari sani sia in soggetti affetti da ipertensione arteriosa. Tuttavia, ad oggi, sono pochi i lavori in letteratura che si siano occupati di studiare le modificazioni indotte dall’esposizione lavorativa all’alta quota a livello del sistema cardiovascolare, respiratorio e otovestibolare. Questa ricerca può avere implicazioni interessanti a livello della medicina del lavoro e potrebbe aiutare nella selezione del lavoratore per stabilire non solo il tipo di mansione (più o meno pesante a livello fisico o ad alto o basso rischio infortunistico) ma anche il livello di altitudine a cui è meglio non esporre un soggetto sulla base di caratteristiche cliniche. Ma sarà anche utile a comprendere meglio il ruolo della ridotta disponibilità di ossigeno nel determinare le complicanze di molte e gravi malattie sistemiche. Basti pensare ai pazienti con insufficienza cardiaca: nello scompenso cardiaco, spesso complicato da apnee centrali e ostruttive nel sonno, la ridotta concentrazione di ossigeno nel sangue peggiora la prognosi e aumenta le complicanze».
Il progetto HIGHCARE Alps-Mont Blanc è parte del progetto HIGHCARE (HIGH altitude CArdiovascular REsearch), un progetto scientifico multidisciplinare che studia i meccanismi di cambiamento e di adattamento del sistema cardiovascolare e respiratorio nei soggetti esposti all’ipossia ipobarica, ovvero a una ridotta disponibilità di ossigeno in alta quota. Le precedenti spedizioni si sono svolte anche sulle Alpi (Monte Rosa nel periodo 2004-2010), sulle Ande nel 2012 e sull’Himalaya nel 2008.

Cagliari vista da Giorgino


Decisioni, compulsioni, autocontrollo. Verso una neuroetica delle dipendenze: Sissa, Trieste, 22-25 settembre 2014

Le dipendenze sono una condizione di assoluto interesse per chi si cimenta con la neuroetica: rappresentano un paradigma, una sorta di experimentum naturae che esemplifica e amplifica i tratti più rappresentativi delle principali questioni con cui la neuroetica si confronta, come il libero arbitrio, l’autonomia, l’autocontrollo, i processi decisionali, la responsabilità, il conflitto tra ragione ed emozione. Su questo tema non è facile trovare uno spazio di formazione e discussione interdisciplinare tra chi fa ricerca di base e chi lavora in clinica, nelle professioni sanitarie e psicosociali, ma anche per chi si occupa di decisioni e organizzazione delle politiche sulle sostanze psicoattive e della comunicazione sul tema. Intende colmare questa lacuna la Scuola estiva di Neuroetica, giunta alla seconda edizione, organizzata dal Laboratorio Interdisciplinare per le Scienze Naturali e Umanistiche della SISSA, in collaborazione con la Società Italiana Tossicodipendenze, la Società Italiana di Neuroetica e Filosofia delle Neuroscienze e la Società Italiana di Storia, Filosofia e Studi Sociali della Biologia e della Medicina.
La scuola estiva, in programma a Trieste dal 22 al 25 Settembre 2014, può essere un'opportunità per studiosi che si occupano di filosofia, etica, bioetica, ma anche per specialisti che lavorano in clinica delle dipendenze, psicologi, educatori, ovvero anche per chi si occupa di organizzare la politica e gli interventi sociosanitari in tema di sostanze psicoattive e per chi, lavorando nel settore giuridico, voglia conoscere meglio come le neuroscienze stanno modificando i processi di giudizio e quelli decisionali in ambito giudiziario.

23 luglio 2014

Che rapporto esiste tra la mente e la bellezza? I correlati neurali del bello in architettura al FENS Forum di Milano.

Perché un paesaggio mi piace? Cosa scatta nel mio cervello di fronte a una particolare forma architettonica? Sono due delle tante domande alle quali non riesco a dare una risposta convincente. Provo solo a elaborare una spiegazione, di carattere evolutivo: la nostra specie, con la necessità di riconoscere rapidamente, per pura sopravvivenza, il buono dal cattivo, possa aver organizzato la mente verso il riconoscimento immediato di alcune categorie. Ma questo se mi fornisce la spiegazione del come non mi dice molto sul perché. Perché buono e cattivo dovrebbero essere ricondotti al bello e al brutto? Per cercare di capirci qualcosa ho interpellato Aldo Vanini (ingegnere e progettista, autore di articoli sulla rivista internazionale C3 su architettura e paesaggio) organizzatore di un evento dedicato ad Architettura e Neuroscienze all'interno del FENS Forum, il Congresso Internazionale di Neuroscienze organizzato dalla Federazione Europea delle Società di Neuroscienze (FENS), che si è svolto a Milano dal 5 al 9 luglio 2014.
Vanini, per restare all'ipotesi che ho poco sopra formulato, mi ha spiegato che una spiegazione potrebbe essere la necessità di velocizzare e ottimizzare i processi di gestione dell'informazione: simmetria, proporzioni, ripetitività, sono condizioni che consentono una drastica riduzione della quantità di informazioni che si devono processare per integrare un fenomeno percepito con cui si debba interagire.


Vitruvio, De Architectura
Vanini, intervenento al FENS Forum nella sessione intitolata "Esistono i correlati neurali del bello in architettura?" ha parlato di una forte correlazione fra strutture neurali dedicate e le categorie formali elementari dell'architettura (la simmetria, l'allineamento, l'ortogonalità, le proporzioni), ipotizzando che tale relazione nasca «dalla necessità di velocizzare i processi di riconoscimento dell'ambiente e l'ottimizzazione della memorizzazione del dato in termini di integrazione dell'informazione. Le ricerche delle neuroscienze aprono la possibilità di indagare sulle origini del concetto di bellezza, superando la storica posizione dei trattatisti, i quali si limitavano a classificarne i canoni. Benché da anni esista e operi negli Stati Uniti una Academy of NeuroSciences for Architecture, con obiettivi legati al miglioramento delle prestazioni degli edifici sotto il profilo psicologico, ancora non è stata posta con forza la possibilità di esplorare le origini teoriche del pensiero architettonico attraverso gli strumenti delle neuroscienze. La bellezza, intesa come risposta positiva a determinate strutture formali, in architettura e in tutte le arti sembra corrispondere, in base alle osservazioni di brain imaging e PET, all'attività di precise area del sistema nervoso centrale, evidenziando forti criteri di universalità. In questo modo si rafforza l'idea che la bellezza sia debba essere connessa con le particolari caratteristiche dell'architettura del sistema nervoso centrale. Esisterebbero dei "circuiti" strutturati in modo tale da apprezzare alcune categorie formali come la simmetria, le proporzioni, gli allineamenti, l'ortogonalità, la ripetitività. Ci si domanda, quindi, se e quali possono essere i motivi dell'esistenza di queste strutture hard-wired dedicate. Le ipotesi sono varie, ma quella che a me sembra più percorribile è legata alla necessità di velocizzare e ottimizzare i processi di gestione dell'informazione, atteso il fatto che, come ipotizzato dai neuroscienziati Giulio Tononi e Christof Koch, la stessa coscienza si configurerebbe come integrazione di informazioni minimali, il così detto Phi. E' ovvio che simmetria, proporzioni o ripetitività, consentono una drastica riduzione della quantità di informazioni da processare per integrare un fenomeno percepito con cui si debba interagire, per esempio uno spazio architettonico.»
Le Corbusier, proporzione antropica e sezione aurea
Ma la bellezza non è sempre ordine e simmetria: è anche fatta di trasgressione. «Su questo punto - mi ha spiegato Vanini - è interessante, a partire dal pensiero della filosofia della storia di Hegel, immaginare che la lotta per il riconoscimento che avevnoa nell'arte e nella cultura alcuni degli strumenti a cui le classi subalterne si rivolgevano per affermare il proprio riconoscimento nei confronti di quelle dominanti, abbia perso slancio al diffondersi dei sistemi politici democratici. La spinta autocritica tipica di questi sistemi ha trasformato in valore la critica ai sistemi consolidati, tra cui gli stessi canoni estetici. L'arte, da sistema celebrativo e autorappresentativo, si è sempre più spostata verso un carattere di comunicazione e di denuncia dell'establishment e, come tale, viene apprezzata da chi dispone di queste chiavi di lettura. Chiavi di lettura che, come dicevo, hanno però una natura culturale, e quindi, con una analogia informatica, di software, mentre le reazioni hard-wired che vengono registrate con i mezzi delel neuroscienze rimangono legate al originario sistema di valori positivi (canonici) e negativi (trasgressivi). Da qui deriva il progressivo distacco dell'uomo comune dalle forme di arte contemporanea (nelle arti figurative, nella musica, nell'architettura, etc.) che non coincidono con le strutture prederminate del sistema nervoso centrale e che, quindi, producono una sorta di 'disagio biologico' nell'osservatore o nell'ascoltatore. Faccio l'esempio della musica dodecafonica o atonale che, a distanza di quasi un secolo dalla sua concezione, non riesce ancora a trovare apprezzamento nel vasto pubblico, considerato il fatto che la scala tonale sembra trovare preciso riscontro nelle strutture hardwired del cervello umano.»


Semir Zeki (docente di neurobiologia allo University College di Londra, fondatore dell'Istituto di Neuroestetica di Berkeley, coautore insieme al pittore Balthus del saggio "La ricerca dell'essenziale")
ha presentato i suoi studi di brain imaging sulla attivazione di aree e reti di neuroni in risposta a immagini piacevoli o sgradevoli, in gruppi adeguatamente selezionati e differenziati di individui. L'importanza di queste risposte è data dalla loro sostanziale omogeneità tra i vari soggetti in relazione al grado di piacere e di disturbo generato. L'aspetto più interessante dello studio è la possibilità di distinguere tra "bellezza" e "arte": il sistema nervoso centrale dei soggetti rispondeva omogeneamente rispetto a immagini universalmente considerate "belle" (forme rassicuranti, immagini classiche, paesaggi ), non altrettanto a immagini ritenute "capolavori" ma "sgradevoli", quali i volti sfigurati di Francis Bacon. Ne deriverebbe una netta distinzione tra la risposta a immagini emotivamente 'stabili', per le quali il cervello dispone di strutture hard-wired innate e immagini "artistiche" che appartengono più esattamente al mondo della comunicazione di contenuti e che, pertanto, rispondono in maniera relativa alla cultura dell'osservatore.
Palladio, i quattro libri dell'architettura

Stefano Boeri (architetto e progettista, docente al Politecnico di Milano, già direttore di Abitare e di Domus) partendo dalla citazione dell'architetto Eupalino, contenuta nel dialogo tra Fedro e Socrate di Paul Valery, ha sottolineato il carattere ambiguo della bellezza architettonica, prendendo le distanze da un'ipotesi rigidamente tassonomica dell'architettura e privilegiando la categoria della creatività e dell'invenzione, pur interessato, anche per educazione familiare in quanto figlio di un neurologo, agli aspetti neurologici del processo creativo.
  
Gonçalo Byrne (architetto e progettista portoghese, Medaglia d'Oro dall'Academie d'Architecture de France, ha insegnato nelle più importanti facoltà di architettura) ha ipotizzato che la "bellezza" in architettura sia principalmente legata al vissuto dello spazio e alle relazioni sociali urbane, e che, eventualmente, queste relazioni trovino nella struttura cerebrale i processi riconducibili all'apprezzamento del bello.
 
Aldo Vanini ha concluso sottolineando la distanza esistente tra le due discipline, nonostante il forte interesse reciproco. In ogni caso resta centrale il tema della possibilità di comprendere non solo il "come' della bellezza", ma anche il suo "perché". Al termine del simposio il pubblico, tra cui Giacomo Rizzolatti, celebre neuroscienziato scopritore dei neuroni specchio, ha posto molte domande lasciando aperto un argomento alla cui prosecuzione tutti gli interessati si sono dichiarati molto interessati e disponibili, dandosi appuntamento per un ulteriore approfondimento, anche allargato ad altre figure disciplinari.

Chiudo questo post riportando una parte della presentazione di Vanini, nella quale troviamo le quattro chiavi - proposte da Rolf Reber (Università di Bergen), Norbert Schwarz (Università del Michigan) e Piotr Winkielman, (Università di San Diego) - che attribuiscono le radici della bellezza al processo neurale. Ecco i quattro pilastri del bello:

  1. alcuni oggetti sono processati più facilmente di altri perché contengono certe caratteristiche che il cervello è neuralmente precablato per processare velocemente, come la simmetria;
  2. quando percepiamo qualcosa che processiamo facilmente, otteniamo una sensazione positiva;
  3. questa sensazione positiva contribuisce al nostro giudizio di valore, come se la percezione sia o meno piacevole, a meno che non si metta in discussione il valore informativo dell’input;
  4. l’impatto di questa facilità di processo è moderato dalle aspettative o da quanto gli si può attribuire coscientemente.


Andrea Mameli
Blog Linguaggio Macchina
23 Luglio 2014

22 luglio 2014

Giffoni Innovation Hub: uno spazio di ricerca e sviluppo per progetti innovativi

Senti Giffoni e pensi al cinema. Ma c’è dell’altro. E che altro! C’è Giffoni Innovation Hub: uno spazio di ricerca e sviluppo per progetti innovativi, startup e imprese culturali e digitali.

A Orazio Maria Di Martino (responsabile comunicazione e curatore di progetti) chiediamo: come funziona e chi lo anima?

«L’idea di Giffoni Innovation Hub nasce nel gennaio del 2014. Luca Tesauro che è a capo del dipartimento e Claudio Gubitosi, ideatore e direttore artistico di Giffoni Experience, hanno concretizzato un progetto che avevano in mente da anni: creare uno spazio aperto tutto l’anno in grado di raccogliere idee e progetti, con l’intento di investire sul futuro dei giovani creativi. Un luogo per la condivisione e lo sviluppo di nuovi modelli formativi capace di coinvolgere associazioni, insegnanti, giovani, istituzioni, partner tecnologici e internazionali. Un percorso che fonderà le sue basi sulla digitalizzazione, la tecnologia, il mondo delle reti, che ad oggi costituiscono l’ambiente di riferimento dei nativi digitali. Innovation hub dunque si propone come un nuovo motore di sviluppo del Giffoni Film Festival, che apre nuovi scenari di opportunità lavorative e imprenditoriali a disposizione dei giovani e non solo. Il tutto è inserito nella realtà di Giffoni Experience che durante la sua storia non si è mai identificata come semplice realtà di spettacolo ma come catalizzatore in grado di coinvolgere le creatività e le potenzialità dei giovani. Il nostro hub è quindi un luogo reale e virtuale di condivisione e networking per know how, conoscenze, idee e culture differenti. Un universo di opportunità lavorative e imprenditoriali a disposizione dei giovani, la vera anima della cultura digitale.»

Fino al 27 Luglio il Giffoni Innovation Hub sarà anche uno spazio di aggregazione per i giovani talenti che desiderano realizzare i loro progetti e le loro idee. In che modo?
«Ci tengo a sottolineare però che l’Hub di Giffoni sarà aperto 365 giorni l’anno. Al termine del festival ognuno potrà continuare a proporre una sua idea, un progetto ed entrare nel luogo di condivisione di saperi e know how che Giffoni mette a disposizione, con il suo brand e il suo network internazionale. Durante i 10 giorni di festival Innovation Hub ha sede in una della delle location più suggestive di Giffoni Experience, l’Antica Ramiera, in passato centro di lavorazione artigianale di manufatti in rame. È una struttura entrata a far parte dell’elenco dei monumenti di interesse storico e da salvaguardare. Il suo recupero è stato realizzato dal Comune di Giffoni Valle Piana ed è stato finanziato interamente dalla Regione Campania. In questo struttura ogni giorno tramite workshop completamente aperti al pubblico si creano opportunità di confronto con mentor, investitori, partner, aziende, innovatori e persone col desiderio di collaborare, confrontarsi e contaminarsi.»

Quali sono le prime startup nate dentro Giffoni Innovation Hub?
«I primi progetti in accelerazione sono: “The last Samuchef”, web series, che unisce cucina e intrattenimento; “Her”, progetto fotografico di Isabella Borrelli sull’altro corpo delle donne; “Der Sandmann”, cortometraggio gotico tratto dal racconto “L’uomo della sabbia” di E.T. Amadeus Hoffmann; “Georgia: working on tomorrow”, reportage fotografico di Roberto Salomone; “E-thanks”, il primo social network che premia la gentilezza e la disponibilità giovani; "Out of water", un’interfaccia web multimediale e interattiva attraverso la quale è possibile esplorare Los Angeles, accompagnati dalle parole di un bambino italiano che si perde nella città; "PiùComunicazione", progetto che sostiene un giornale online d’informazione e opinione frutto di una giovane redazione sempre al fianco del lettore. Contiene notizie, commenti, inchieste, report e statistiche dalla Campania e dal mondo; "Art Stories", la bellezza dell’Italia raccontata ai bambini: la app per scoprire i luoghi dell’arte nelle nostre città; "Narcisse" che si occupa della produzione di papillon colorati dallo stile frizzante e ironico, realizzati rigorosamente in legno, in grado di conquistare anche il mondo femminile; "Tapebox", social network rivoluzionario senza barriere, permette di creare contenuti con video, voce, testi, immagini, da condividere attraverso i retape.»

Cos'è Giffoni Idea?
«In realtà è proprio Giffoni Idea la prima vera startup nata in Giffoni Innovation Hub. Una sorta di piattaforma partecipativa realizzata in collaborazione con DeRev.com, concepita per accelerare idee d’impresa e progetti artistico-culturali attraverso il crowdfunding. Giffoni Idea si propone come un’enorme porta d’accesso per coloro i quali avranno intenzione di proporre la propria idea, il proprio progetto.»

Linguaggio Macchina si interessa (a Cagliari e in giro per il mondo) all’esperienza Coder Dojo. Cos'è successo il 20 Luglio?
«Il 20 luglio CoderDojo Italia, la palestra creativa in cui bambini e ragazzi imparano a creare software utilizzando tecnologie open e in modo gratuito, ha tenuto un workshop sulla digital education. Erano presenti Agnese Addone e Caterina Moscetti che hanno parlato dell’iniziativa e di come, tramite il loro lavoro, si insegni ai bambini ad avere un atteggiamento responsabile nei confronti delle rete e delle tecnologie. Attraverso iniziative del genere Giffoni Innovation Hub si pone l’obiettivo di realizzare un format condiviso affinché l’Italia diventi sempre più protagonista della rivoluzione educativa in atto in tutto il mondo, quella che utilizza il coding come strumento per il salto di qualità verso una cultura dell’informatica nel ruolo di maker oltre che consumer. Al centro, come sempre, i più giovani che parteciperanno a tutte le fasi di sviluppo del progetto.»

Andrea Mameli
blog Linguaggio Macchina

21 luglio 2014

Without a land, la memoria per Mele e Scano. Inaugurazione a Cagliari il 25 Luglio 2014

Without a land è il titolo della mostra fotografica con la quale Andrea Mele e Stefania Scano raccontano una Sardegna minore: Zuri, il villaggio affacciato sul lago Omodeo e i suoi 130 abitanti. Il tema è la memoria. Nel 1922 Zuri, con la creazione del lago Omodeo, fu spostato sull’altopiano perdendo gran parte dei terreni fertili. La splendida chiesa del XIII secolo dedicata a San Pietro fu smontata e ricostruita. Zuri ha perso lo status di Comune autonomo ma cerca di mantenere una propria forte identità.  Recentemente è nato un bambino dopo 18 anni di crescita zero.
L'inaugurazione è il 25 Luglio a Cagliari alle 19:00 Hostel Marina (Scalette di San Sepolcro 2). Esposizione dal 25 Luglio al 27 Agosto.

La mostra rientra nel circuito di mostre collaterali Menotrentuno A. Banda (organizzata da Su Palatu fotografia).