15 settembre 2016

La fabbrica dei sogni è sempre aperta: Cinecittà merita una visita.

Ripensavo alle parole di Federico Fellini scelte da Cinecittà per condensare il senso di questo luogo:
«L’hanno definita la fabbrica dei sogni: un po’ banale, ma anche vero. È un posto che dovrebbe essere guardato con rispetto, perché al di là di quel recinto di mura ci sono artisti dotati e ispirati che sognano per noi. Per me è il posto ideale, il vuoto cosmico prima del big bang.»
In effetti considerando l'importanza del cinema rispetto all'immaginario collettivo il monito di Fellini a guardare Cinecittà con rispetto non è per niente sbagliato. Anzi, Cesare Musatti, il padre della psicoanalisi italiana, ha misurato seriamente la presenza dei film nei sogni:
«I sogni contengono, con una frequenza veramente notevole, impressioni, scene, personaggi, situazioni desunte da film. Non che questo materiale abbia per lo più nei sogni una funzione diversa da quella di ogni altro resto diurno; ma esso sembra prestarsi in modo particolare ad attrarre su di sé le cariche emotive di provenienza inconscia e a lasciarsi quindi inserire nel sogno.» 
(Scritti sul cinema, Testo e Immagine, Torino 2000).


Nel percorso "Girando a Cinecittà" (Palazzina presidenziale) consiglio di stare a sentire l'intervista a Sergio Leone e la sua risposta alla domanda come'è nato il western italiano. Il maestro parla del fascino che esercitavano su di lui i libri di Karl May, un romanziere tedesco che descriveva il far west senza esserci mai andato (a sua volta un lettore di Emilio Salgari, anche lui narratore di luoghi che non aveva visto) e accosta il western all'epica di Omero. Avvicina Achille e Agamennone a Gary Cooper e John Wayne. Tutti grandi miti sull’individualismo. Per Leone "i personaggi di Omero sono sono gli archetipi degli eroi western". Ricordo che Sergio Leone faceva un altro esempio di come si possa riuscire a descrivere qualcosa senza averla mai vissuta è Shakespeare, quando ha descritto alcune grandi tragedie italiane senza essere mai stato in Italia e assai meglio degli stessi italiani.

Mostra Spaghetti Western. Foto: Anna Galante
Ma la visita a Cinecittà serve anche per vedere da vicino alcune strutture usate come scenografia di film e per farsi un'idea di alcune cose: del lavoro che c'è dietro un film, di come passando da un film a un altro si può riusare lo spazio e parte delle strutture preesistenti, della reale consistenza si queste strutture, che spesso hanno solo la facciata e sono vuote dietro.
Cosa c'è dietro, Cinecittà (foto: Andrea Mameli)

E di come le strutture viste dal vivo, come questa del Tempio di Gerusalemme allestita per la serie The Young Messiah:
Tempio di Gerusalemme oggi (foto: Andrea Mameli)

appaiono nella finzione filmica:
The Young Messiah. Tempio di Gerusalemme (foto: PhilippeAntonello)

Ma scopri anche che Cinecittà nel periodo compreso fra il 1944 al 1950 da tempio della finzione si è trasformata in città della cruda realtà, quando ha dovuto ospitare i profughi e gli sfollati:

Una descrizione accurata di quei fatti dal film Profughi a Cinecittà di Marco Bertozzi (2012):
«Dopo essere stata campo di concentramento per novecento uomini rastrellati nel quartiere del Quadraro, il 16 ottobre 1943 Cinecittà viene depredata dai nazisti e 16 vagoni merci carichi di cine-attrezzature lasciano Roma, otto con destinazione Germania, e otto per la Repubblica di Salò. Nel gennaio del 1944 i teatri di posa vengono bombardati dagli alleati, in uno dei circa 50 bombardamenti che colpiscono Roma.
Il 6 giugno 1944 la “città del cinema” è requisita dall’Allied Control Commission per garantire l’alloggiamento delle migliaia di rifugiati creati dalla guerra. Un moderno complesso cinematografico, pur se profondamente ferito, viene convertito in campo profughi: da una parte i senzatetto italiani, dall’altra, rigidamente separato, un campo internazionale. Cinecittà fu infatti la destinazione per profughi dalle storie e dalle sofferenze assai diverse: tra le migliaia di sfollati c’erano i figli dei coloni italiani in Libia, gli esuli giuliano-dalmati, gli sfollati dai bombardamenti di Monte Cassino e di Roma, molti ebrei internati e rientrati dai campi di concentramento.»
In fondo in fondo, è certo una fabbrica di emozioni, ma rappresenta anche un tempio della memoria o almeno di una porzione significativa della nostra memoria. Ecco perché secondo me Cinecittà merita una visita.

Cinecittà, la facciata. Foto: Anna Galante
Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 15 Settembre 2016





14 settembre 2016

La durata non è proporzionale alla forza: due capolavori di Eitan Pitigliani brevi ma intensi


Quella testa poggiata sul prato di Cinecittà mi ha svelato un segreto.

Venusia, la scultura che compare nella prima scena del Casanova di Federico Fellini, mi ha ricordato che all'inizio il cinema era un'arte della visione. E solo dopo è diventato arte dell'introspezione, come spiega molto bene Teresa Biondi nel suo libro del 2007 "La fabbrica delle immagini. Cultura e psicologia nell'arte filmica": «con l'evoluzione delle tecniche e delle forme del racconto è divenuto rappresentazione audiovisiva dell'uomo e del pensiero umano». Ecco, forse quello sguardo mi dice che sta tentando di entrare nella propria testa e non ci riesce perché non è in un film ma è sul prato di Cinecittà. E possiamo dire che con il cinema (prendendo ancora in prestito le parole di Teresa Biondi) «l’uomo si preserva dall’oblio, custodisce la cultura nell’atto del racconto; rivive e rinforza l’esperienza vissuta nell’atto del rappresentarsi, approfondendo e tramandando la conoscenza consapevole del Sé e dell’esistenza umana».

Ieri sera ho avuto il piacere di conoscere Eitan Pitigliani e di ammirare due suoi film. E nel corso dell'intervista condotta dal vivo da Raffaella Spizzichino (sul palco del Palazzo della Cultura, in occasione del Festival Internazionale di Letteratura e Cultura Ebraica) sono emerse alcune parole (alle quali io sono molto sensibile): viaggio, ricerca, memoria, identità.


Avevo intuito che quelli che stavano per essere proiettati dovevano essere due film importanti. Ne ho avuto conferma vedendoli: a prescindere dalla durata, che non è indicativa della dignità dell'opera (quindi non li chiamerò corti ma film) li ho trovati di un'intensità notevole e di una bellezza senza fronzoli. Devo essere sincero: la domanda "e se avesse avuto a disposizione i canonici 100 minuti cosa avrebbe fatto?" me la sono posta. Ma mi sono anche risposto da solo: ora basta con i se.


Il primo ("Me reencontrarás") colpisce per la forza della storia, anche se il titolo non è di facile lettura. Anzi forse questa incertezza (figlia della bramosia di capire le cose già dalla confezione esterna) rafforza il contenuto della storia conferendo al finale la potenza della rivelazione. Questa storia che si sviluppa in 13 minuti è insieme molto semplice e tremendamente complessa perché racconta di un viaggio, quello di Pablo (interpretato dall'attore argentino Andrès Gil) dall'Argentina all'Italia alla ricerca di tracce di un precedente viaggio. Il nonno ha lasciato solo un quadro, che raffigura una trattoria romana, nella quale il nonno trascorreva le giornate insieme a un amico, Cosimo, e una poesia, che canta la nostalgia per il Mar de La Plata. Questo viaggio ci trasporta nei luoghi scelti dal regista: in particolare i vicoli di Trastevere e l’Isola Tiberina per poi culminare nel Tempio Maggiore, la Sinagoga di Roma, dove Pablo si rifugia non appena scopre la terribile verità della deportazione del nonno durante la seconda guerra mondiale.
Ho trovato molto interessante la serie di sottili giochi di messa a fuoco che il regista sceglie, a mio avviso, per accentuare l'incertezza che avvolge il protagonista, il quale a un tratto raggiunge il punto di fuoco della camera come se uscisse gradualmente dalla nebbia dell'oblio.
Il direttore della fotografia di Me reencontrarás è Timoty Aliprandi, la costumista è Nicoletta Ercole, la scenografa è Lisa Urbano, il montatore è Alessio Doglione e il musicista è il maestro Paolo Vivaldi. Il film ha avuto il patrocinio della Fondazione Museo della Shoah e della Comunità Ebraica di Roma e due sponsor: De Luca Visual Artist e Annamode Costumes (che ha fornito un cappotto indossato in scena da Vittorio Gassman). Il film ha vinto, tra gli altri, il premio Golden Spike Award al Giffoni Film Festival.


Al secondo film ("Like a Butterfly") bastano 27 minuti per raccontare la durezza dell'esistenza, con la lotta tra bene e il male: salute e malattia, voglia e rassegnazione, la bellezza della vita e la sua inutilità; c'è il giovane (Will Rothhaar) che cerca, c'è il vecchio (Ed Asner) saggio e irriverente che mostra la via, c'è l'amica (Cindy Pickett) che riporta alla concretezza delle cose, ingredienti che conferiscono a questo film una potenza inusuale. Non a caso ha già conquistato numerosi premi: tre al Social World Film Festival (Miglior cortometraggio, Miglior regia, Miglior attore: Ed Asner), sette al Videocorto Nettuno, e altri seguiranno.
Secondo Pitigliani l'idea di base nasce da una riflessione apparentemente semplice (maturata con lo sceneggiatore Alessandro Regaldo): l'importanza per i giovani di trovare un punto di riferimento in coloro che hanno già percorso il cammino della vita. Ma, come spesso accade, le cose apparentemente semplici non lo sono affatto. Questa è la base alla quale si ispirato il primo lungometraggio di Pitigliani, attualmente in fase di scrittura. Ovviamente non vedo l'ora di vederlo.

Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 14 Settembre 2016

13 settembre 2016

Tacabanda esite davvero!

A Roma, improvvisamente, ti trovi di fronte un sunatore di strada, che richiama alla memoria il celebre Tacabanda! Questo signore merita tutta la mia stima (e la mia offerta) per la sua simpatia e per il suo ruolo sociale: rendere la strada più allegra. Semplicemente meraviglioso.


Tacabanda era una serie di cartoni per Carosello il cui protagonista era un suonatore ambulante (che avrebbe voluto fare il panettiere sfornando biscotti Doria, di cui era la pubblicità ufficiale). La regia era di Roberto Gavioli, i disegni di Gino Gavioli, la musica di Franco Godi.

Forse Gavioli si è ispirato a un personaggio di Totò (in Totò le Mokò, un film del 1949 diretto da Carlo Ludovico Bragaglia):

Tacabanda nel Carosello 1968-1976

P.S. Busto di Totò (Roma, Piazza Cola di Rienzo) inaugurato nel 2002


Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 13 Settembre 2016

12 settembre 2016

L'importanza del Nasone, fontanella di Roma

Le fontanelle di Roma, chiamate amichevolmente nasoni, non sono solo un servizio di pubblica utilità. Rappresentano anche un elemento caratteristico di questa città.

Di quelle in ghisa alte un metro e 20 più di 200 furono installate nel 1847, ma la prima risale al 1872. In totale di erogatori gratuiti d'acqua ce ne sono circa 2.500.

L'acqua fornita viene regolarmente controllata dall'Azienda Comunale Energia e Ambiente (ACEA): ogni anno vengono eseguite circa 250.000 analisi.

L'ACEA spiega che esiste un secondo vantaggio costituito dall'acqua che scorre liberamente:
"Il flusso idrico continuo garantito dalle fontanelle produce enormi vantaggi dal punto di vista igienico: evita infatti la stagnazione dell'acqua nelle condotte durante la notte, quando la richiesta dalle abitazioni si riduce notevolmente, e consente di mantenere una costante fluidità nelle condotte fognarie, impedendo soprattutto nella stagione estiva il formarsi di cattivi odori".


Nel 2009, per festeggiare un secolo di storia, l'ACEA ha messo a disposizione anche una splendida mappa del tesoro:



Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 12 Settembre 2016

Approfondimenti:


11 settembre 2016

Una corsetta vicino al Tevere e vedi le corde che tengono la chiatta

Una corsetta all'alba vicino al Tevere.


Uno sguardo al Ponte Matteotti.

Una foto pubblicata da Andrea Mameli (@linguaggiomacchina) in data:


E una persona curiosa come me non può non notare quelle corde.

A quelle corde è assicurata la chiatta dei Vigili del Fuoco (danneggiata dalla piena del Tevere del 2014)
Una foto pubblicata da Andrea Mameli (@linguaggiomacchina) in data: