Simone Cicero, Hopen, la Sardegna e l'innovazione.

Simone Cicero A volte seguire i tuoi amici su Twitter e Facebook ti può regalare qualche sorpresa. Leggendo i commenti a un post di Antonio "Pintux" Pintus che iniziava così "Dovremmo smetterla di paragonare la Sardegna alla Silicon Valley o alla California" mi ha colpito l'intervento di Simone Cicero: "Le idee e la passione sono più forti di tutto".
E così è nata l'intervista che trovate qui sotto. Intanto ho scoperto che Simone Cicero è esperto di innovazione e strategia digitale come consulente aziendale. Ma soprattutto, per quel che mi riguarda, è un gesucher, alla Hermann Hesse. Ovvero uno che cerca: «la mia grande passione - mi ha spiegato - e la mia ragione di vita è sempre stata analizzare e capire la realtà. Per questo motivo sono diventato un blogger: avere il mio blog mi ha permesso di conoscere persone straordinarie che di volta in volta ho ospitato o intervistato e questo alla fine mi ha portato a sviluppare i miei stessi contenuti, la mia visione che, alla fine, si è sostanzialmente incarnata in Hopen.»
Simone cosa è Hopen?
«Hopen è un think tank: in Italia la definizione non è familiare, in breve si tratta di un luogo dove immaginiamo di far nascere competenze e capacità di azione per provocare il cambiamento. Chiaramente vogliamo farlo evocando e favorendo lo sviluppo della società che abbiamo in mente: che sia aperta, paritaria e libera basata quindi sulla trasparenza della pubblica amministrazione, sulla una cultura aperta e accessibile a tutti a prescindere dalle disponibilità economiche e sulla constatazione che i singoli, cooperando tra loro, possono creare benessere e un nuovo tipo di ricchezza basata sulla condivisione. Faccio qualche esempio: si può progettare un sistema di ride-sharing/carpooling che contribuisca a risolvere i problemi di mobilità dei cittadini delle grandi città italiane? noi crediamo si debba affrontare il problema coinvolgendo nel design gli stessi cittadini, le aziende e gli enti presso cui lavorano e che ne gestiscono di fatto l’orario di lavoro e le aziende del trasporto pubblico locale che possono integrarlo con il loro servizi per creare un sistema di trasporto condiviso che possa rappresentare realmente un’alternativa. Ancora, quanto sarebbe importante una libreria didattica per la scuola dell'obbligo nell’impedire lo spreco di centinaia di migliaia, probabilmente milioni, di euro in libri che diventano subito obsoleti e che, oltre che provocare problemi alla schiena ai ragazzi in molti casi, impediscono a taluni persino di frequentare? Tutto questo solo a tutela della lobby dell’editoria con un inutile e insostenibile spreco di carta. Ecco, noi pensiamo che riunendo tanti volenterosi, magari i professori o maestri stessi, potremo creare materiale gratuito e rilasciarlo al pubblico in creative commons per essere manutenuto e arricchito nel corso del tempo. Siamo coscienti dell'impatto che possiamo avere come comunità se operiamo collettivamente con tutte le nostre professionalità e crediamo, appunto, che per ottenere il cambiamento sia necessario essere agenti di cambiamento e vogliamo farlo parlando alla società nella sua interezza: mediante un blog/magazine online, eventi di incontro accessibili e gratuiti, mobilitando tutti i professionisti e gli influencers in continui workshops, supportando e connettendo tutti i progetti a cui sentiamo di poter dare il nostro contributo. Su un piano più operativo infine Hopen ancora non è: stiamo definendo praticamente tutto, inclusa la forma associativa e il manifesto e approfitterei per linkare al nostro sito: hopen.it (con tanto di wiki) e il nostro gruppo Facebook, il luogo dove ad oggi teniamo gran parte della discussione.»
Intervenendo in una discussione sul contrasto fra speranze e realtà dell'innovazione in Sardegna hai commentato con un bel pensiero: "Le idee e la passione sono più forti di tutto". Potresti approfondire il concetto?
«La discussione sul contesto italiano e, dunque, anche la sua declinazione rispetto alla Sardegna è annosa e complessa. Ed è palese che ad oggi il nostro Paese soffra di una gestione politica a dir poco sconnessa dalla realtà delle cose che, semplicemente, non agisce se non nell'interesse dei grandi accentramenti di capitale che vanno tutelati. Quando si parla di sviluppo però, la penso essenzialmente in questo modo: il mercato è, di fatto, globale e non esistono vincoli ne vantaggi competitivi sostanziali dovuti alla posizione geografica, almeno rispetto al mercato dei beni e dei servizi digitali che è l'unico in cui è lecito attendersi uno sviluppo significativo.
In questo senso andrebbe inteso il mio commento dell'altro giorno: il mercato dell'innovazione digitale e dell'economia della conoscenza è diventato così democratico che è accessibile a tutti. Quello che può fare la differenza in questo campo è, piuttosto, una gestione più concreta e strategica della formazione, universitaria e non, che deve preparare i giovani all'idea della creatività, della partecipazione, della cooperazione e dell'impresa. Quando invece parliamo di sviluppo economico nell'accezione tradizionale, quello basato sulle risorse, anzi direi sui consumi - quello misurato col PIL - non possiamo più scinderlo dal concetto di sostenibilità ambientale e culturale e, in questo, ritengo che la Sardegna - coi suoi spazi e il suo ancora enorme patrimonio culturale e naturale, a volte in pericolo, del quale i Sardi dovrebbero occuparsi di più - possegga ancora, come poche altre regioni Italiane, un patrimonio significativo da cui ripartire. L’obiettivo deve essere però mirare a costruire un’economia più umana e più attenta al significato vero e non solo città più grandi e piene di traffico piuttosto che altri centri commerciali o industrie che non si sa neanche cosa dovrebbero produrre.»
Quali sono i consigli per chi vuole fare innovazione "dal basso", e deve misurare lo slancio della creatività e della cultura open con la burocrazia italiana e la scarsità di mezzi?
«Per prima cosa occorre accordarsi su cosa realmente riteniamo innovazione. Per me innovare significa trovare nuove soluzioni, e quindi anche abbattere i monopoli, superare le inefficienze e le barriere all'accesso. Credo che oggi l'innovazione sostenibile debba essere fatta dalla comunità, per la comunità. È stato dimostrato in molti casi che gli stessi utenti sono in grado di innovare più dell’industria: una delle ultime ricerche di Eric von Hippel (Comparing Business and Household Sector Innovation in Consumer Products: Findings from a Representative Study in the UK) mostra come siano quasi 3 milioni le persone solo nel Regno Unito che fanno modifiche e innovazioni ai prodotti che acquistano e come il lavoro che svolgono nell’effettuare il product hacking equivalga a 2.3 volte le spese in ricerca e sviluppo di tutte le imprese britanniche). La spiegazione è semplice: innovare significa colmare dei gap che solo gli utenti possono conoscere nella loro completezza. Dunque la vera innovazione si può fare a partire dalla condivisione e dalla partecipazione della comunità degli utenti e dei cittadini ai processi di produzione del benessere e in quelli di governo dei fenomeni sociali. Ovviamente in molti campi la presenza di uno stato (che in fin dei conti dovrebbe essere l'espressione principe della comunità stessa) che investa a supporto della ricerca e della formazione è basilare e, effettivamente, in Italia questo problema è ormai tristemente atavico; d'altra parte però non ritengo che la burocrazia sia un impedimento più di tanto significativo: sicuramente lo è meno della mancanza di iniziativa e della scarsa capacità di fare comunità.»
Recentemente Umair Haque ha introdotto il concetto di Humanizing. Che opinione ti sei fatto in proposito?
«Nel mio post "Humanizing in the value age" che scrissi proprio in seguito alla lettura del post "The Shape of the Meaning Organization" di Haque ho scritto: "Se sarà veramente l’individuo il nuovo centro di gravità del mercato e il nuovo attore principale del successo di un prodotto, allora forse la comunicazione dovrà abbandonare la mera applicazione di strategie precostituite, e divenire capacità di raccontare storie e contenuti “veri”, capacità di trasmettere valori condivisi e il valore stesso della condivisione, radice etimologica stessa del termine comunicare. L’obiettivo sarà dunque dare all’utente un ruolo sempre maggiore nell’ispirare la produzione e nel permettergli di condividere infine anche l’atto stesso del produrre la ricchezza. Certamente, se il nuovo ruolo imposto alla comunicazione nel presente è difficile da interpretare, più grande è il cambiamento che si chiede oggi al mercato e all’industria: fondersi con la nuova società che ci apprestiamo a divenire". Non aggiungo altro.»
Anche io non aggiungo altro. Grazie Simone e buon lavoro.
Andrea Mameli - www.linguaggiomacchina.it - 26 ottobre 2011


Hopen.it

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