Il mito della Silicon Valley, la sostenibilità e la foresta pluviale.
"I lavoratori della conoscenza del futuro saranno attirati da quelle aree in cui gli enti accademici e di ricerca saranno vicini alle sedi delle aziende, a quelle istituzionali e finanziarie, in cui le persone afferenti a questi ambiti potranno frequentare gli stessi luoghi di ritrovo e di svago, conoscendosi ed interagendo in modo spontaneo, e potranno vivere nelle stesse aree residenziali, raggiungibili senza automobile. Le aree più efficaci nell’attirare investimenti ed aziende competitive saranno quelle in cui queste condizioni si verificano, perché sarà lì che i talenti vorranno trasferirsi."
Lo scrive Marco Baccanti (chimico, inventore, imprenditore e presidente della Commissione Innovazione Confindustria Emilia Romagna) nel suo blog Innovazione e competitività (Il Sole 24 Ore). Il titolo del post è eloquente: "Una lezione dalla Silicon Valley: gli incubatori del futuro saranno nei centri urbani".
Cosa sta succedendo? Secondo Baccanti sta entrando in crisi il modello degli immensi parchi tecnologici e dei grandi incubatori, quel modello che per decenni ha avuto la Silicon Valley come riferimento assoluto. Un modello sbagliato in quanto irripetibile e non esportabile. Perché? Ma perché il modello di vita, scrive Baccanti: "basato sul trasferimento dal parcheggio dell’ufficio a quello della villetta nel ‘suburb’ con sosta nel parcheggio del centro commerciale e del ’food court’ per acquisti e prelievo della cena pronta fornita da qualche multinazionale del fast food e consumata di fronte al tv o al PC non è più considerato sostenibile e comunque non è più quello desiderato dalle nuove generazioni di talenti e lavoratori della conoscenza corteggiati dalle start up tecnologiche, così necessari per la loro sopravvivenza".
Bisogna anche dire che quello della Silicon Valley è un vero e proprio mito e come tale spesso citato in maniera inappropriata. Perché stiamo parlando di un luogo che conta migliaia di imprese, 4 università (due delle quali si chiamano Stanford e Berkeley) e una popolazione di quasi 4 milioni di abitanti. Un luogo che mantiene intatte le sue enormi capacità di attrarre le imprese [primo in classifica, fonte: Startup Ecosystem Index] ma che non rappresenta più (sempre che lo sia mai stato) il modello da esportare.
E allora quale sarebbe il modello? Forse ve lo dirò dopo aver letto il libro di Victor W. Hwang e Greg Horowitt: “Rainforest: the secret to building the next Silicon Valley". Un libro che Gianluca Dettori consiglia di leggere per capire il paradigma della foresta pluviale. E io seguirò il suggerimento di Gianluca.
Commenti
È stato ingenuo considerarla come una causa di quel paradigma e proporne il modello in realtà diverse, come quelle europee.
Non ho idea di come possa essere il modello "pluviale", ma credo che sarà qualcosa di funzionale al paradigma socio-economico di paesi come Brasile e India che, presumibilmente, lo adotteranno.
Aspetto di scoprire il modello pluviale qui su LM.
Mi permetto di osservare che, per fortuna in Sardegna, non c'è la jungla... Potremo contenere i rischi delle cattive imitazioni e del loro costo pubblico
Consorzio 21) a oggi.
2) Quali risultati sono stati conseguiti in termini di imprese tecnologiche nate vicino al parco tecnologico? 3) Quante persone hanno lavorato e attualmente lavorano dentro
il parco tecnologico? Oggi quanto quanto costa tenerlo in piedi? Per poter fare delle cmparazione si dovrebbero anche considerare i costi di trasporto del personale, dato che solo una piccola parte, a quanto mi risulta, si trasferita (nel senso che ci abita) nelle immediate vicinanze.
Sergio
Da questo e da altri mille fattori (come ad esempio la carenza di competenze manageriale nella classe imprenditoriale isolana) deriva poi la mancanza di attrattività nei confronti di investitori esterni per l'apporto di capitali: ricordiamoci che senza quattrini (tanti quattrini) non vi è possibilità alcuna che attechiscano realtà industriali di rilievo!