Dachau: brandelli di storie alla ricerca di un senso



Avevo 14 anni quando mi capitò tra le mani, in una biblioteca scolastica, un libro intitolato Medicina Disumana. Lo sfogliai e decisi di prenderlo in prestito, per pura curiosità. Quel volume (di Mitscherlich e Mielke, sottotitolo "Documenti del Processo di Norimberga contro i medici nazisti", pubblicato da Feltrinelli nel 1967) fu per me illuminante. Mi fece capire, molto rapidamente, una parte della Storia che fino a quel momento non mi era affatto chiara.
Ieri ho visitato il campo di Dachau e ho aggiunto altri tasselli ai brandelli di storie che ciascuno di noi rimette insieme nella propria testa. Chi con metodo e con ricchezza di particolari. Chi in maniera frammentaria ma con un'abbondante dose di curiosità, a mò di collante, nella perenne ricerca di un senso. Io faccio parte del secondo gruppo.
Oggi mi trovo a Monaco e mi fa una certa impressione sapere che 80 anni fa il quotidiano allora più letto in questa città, il Münchner Neuesten Nachrichten, pubbblicò questo trafiletto: «Mercoledì 22 marzo 1933 verrà aperto nelle vicinanze di Dachau il primo campo di concentramento. Abbiamo preso questa decisione senza badare a considerazioni meschine, ma nella certezza di agire per la tranquillità del popolo e secondo il suo desiderio».
È facile cadere nella retorica quando si affronta il tema dei campi di concentramento, perché la tentazione di distaccarsi dalla realtà è fortissima. Ma secondo me il dovere supremo non è ricordare, ma ricordare bene. Ecco perché leggere quel trafiletto mi sembra estremamente importante. Mi sembra importante sapere che la costruzione del campo non avvenne, come si è portati a credere, di nascosto.
C'è poi un aspetto, forse ancora più importante, di natura economica e sociale: nel 1919 venne chiusa la fabbrica di polvere da sparo "Königlichen Pulver und Munitionsfabrik Dachau" che per tutta la Prima Guerra Mondiale aveva dato lavoro a molti cittadini di Dachau. L'apertura del campo di concentramento, proprio in quell'area, ha rappresentato indubbiamente un elemento positivo, sotto il profilo occupazionale, diretto e, come si suol dire, indotto.
Esercitare la memoria (con la emme maiuscola) è inutile, se non lo si fa tentando di cogliere il senso delle cose. La parola che è affiorata in mente, quando mi sono trovato di fronte a quel cancello in cui il ferro forma le parole il lavoro rende liberi, è: perché. La risposta tipica è: perché c'erano degli ordini e andavano eseguiti. Quindi la risposta risale fino al vertice della piramide e incolpa di tutto l'omino coi i baffetti. Stop.
Un cavolo, penso io, poco dopo aver varcato quella soglia. Chi entrava qui e veniva spogliato di tutto, per poi indossare quel pigiama a righe, e poi prendeva urla, spinte, schiaffi, randellate, frustaste, razioni alimentari insufficienti, ordini assurdi, non li prendeva dall'omino con i baffetti ma da uomini e donne in carne e ossa. E quando gli sciagurati si trovavano di fronte a medici e infermieri che praticavano gli esperimenti di medicina disumana, qui a Dachau, si trovavano di fronte medici e infermieri in carne e ossa, non l'omino con i baffetti.
Dachau. Foto: A. Mameli, 2013.
Se questo posto è diventato una scuola di violenza senza pietà (il cosiddetto "Spirito di Dachau", poi esportato negli altri campi) significa che c'erano migliaia di persone coinvolte direttamente e indirettanente nell'organizzazione e nell'esecuzione. Certamente è un pensiero consolatorio quello che induce a dissociare, a separare l'immagine delle atrocità dalla stessa umanità (intesa come specie Homo sapiens). Forse ci serve a tenere lontani i sensi di colpa, sempre in agguato. Di sicuro non aiuta a capire.
Non sto cercando colpevoli, sia chiaro, e tantomeno assoluzioni. Sto solo tentando di afferrare un senso più profondo della pura separazione tra buoni e cattivi.
Dachau: letti. Foto: Andrea Mameli, 2013.

In questo ragionamento credo che una parte importante la svolga l'immaginario che ci costruiamo vedendo film ambientati in questi contesti. Pensateci bene. Avete ma visto in un film la soggettiva di una SS? Siete mai "entrati nel personaggio nazista" in un film? Io no. Solo in due casi ho trovato un'introspezione nella mente del nazista, ma in entrambi il protagonista passa rapidamente dall'altra parte: Schindler's List e Operazione Valchiria. Questa mancanza di appigli emotivi "nella testa delle SS" può aver contribiuito a quella che mi sembra una lacuna significativa, direi anzi una sorta di rimozione collettiva. Il motivo principale è sicuramente la difficoltà, di regia più che di interpretazione, insita in una simile operazione. E altri motivi, diciamo di opportunità, che hanno indotto i produttori a erigere un muro. Non sarà arrivato il momento di sfondare questo muro? Pronto, Hollywood, mi sentite?
Dachau. Foto: A. Mameli, 2013.

Chi ha tentato l'incursione nel campo minato dei come e dei perché sono stati, non senza sofferenze, i medici. Solo a partire da 30 anni fa è nato, in Germania, un gruppo di ricerca mirato a scoperchiare l'orrida pentola dell'eutanasia nazista. Una pentola scottante: medici, psichiatri, infermieri, collaborarono attivamente per programmare e gestire l'uccisione dei pazienti loro affidati. Lodevole in questo campo l'opera di Klaus Dorner ("Il borghese e il folle. Storia sociale della psichiatria", Laterza, 1975) e di Luigi Benevelli ("I medici che uccisero i loro pazienti. Gli psichiatri tedeschi e il nazismo", Mantova Ebraica, 2005).
Dachau, Dicembre 2013. Foto: Andrea Mameli

A Dachau, ieri, c'era gente di tutte le età, proveniente da ogni parte del mondo a vedere le baracche, i forni, le docce, i piatti, le posate, i vestiti, le foto dei volti e dei corpi, filmati della liberazione. Un museo al contrario: non una raccolta di bellezza ma di orrore. Forse la più grande consolazione è il fatto stesso che esiste, non è stato cancellato. E che possiamo andarlo a visitare.

 Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 30 Dicembre 2013

Dachau: forni. Foto: Andrea Mameli, 2013.

 (questo post viene pubblicato anche sul blog di Daniele Barbieri)








Commenti

Stefania ha detto…

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi .~ Primo Levi
Gianfranco Meloni ha detto…
Caro Andrea,
grazie per questa testimonianza.
Anche io penso che l'unica consolazione all'immensa tristezza di un posto come Dachau sia, come dici tu, di vederlo intatto e pieno di "gente di tutte le età, proveniente da ogni parte del mondo".
Questo vuol dire che, in quanto uomini, sappiamo dare un peso ai nostri errori, anche ai più tragici e che ancora cerchiamo una riconciliazione empatica con la nostra stessa specie, capace di sprofondare in un tale abisso.
Otto Adolf Eichmann, ufficiale delle SS, graduato come "semplice" tenente colonnello ma investito dal Reich del delicato incarico di occuparsi degli ebrei, nel processo celebratosi a Gerusalemme all'inizio degli anni '60 si è difeso sostenendo di essersi sempre occupato solo di trasporti.
Annah Arendt, impressionata da questa mostruosa superficialità, ha sostenuto che il male può essere estremo, come a Dachau, senza avere a che fare con quello che fino ad allora i filosofi chiamavano "male radicale" e molti cristiani "diavolo".
Il Male estremo, secondo Annah Arendt, non ha radici profonde, non è l'antagonista ontologico del Bene, ma prospera come una muffa tossica sull'ignavia della società e sulla superficialità di ciascun individuo. Il male, quindi, non è radicale ma banale.
La banalità consiste nell'agire sempre dentro un perimetro di regole certe, senza interrogarsi sulle regole stesse ("mi sono solo occupato di trasporti", disse Eichmann, ma anche Priebke ha sempre sostenuto nei nostri tribunali di avere "solo obbedito agli ordini superiori"). Anche l'uomo più intelligente può essere tranquillamente un uomo banale e contribuire alla propagazione della muffa maligna.
Questa superficialità non ha, in sé, nulla di spettacolare, non ha un principio agonistico né consente una lotta titanica e, soprattutto, non concede nessun esito liberatorio come accadeva nella tragedia greca con la catarsi.
E' per questo che un altro filosofo, Theodor Adorno, ha sostenuto che dopo Auschwitz non è più possibile la poesia e forse nemmeno il cinema potrà mai rispondere al tuo appello.
Linguaggio Macchina ha detto…
Ringrazio Stefania e Gianfranco per i loro interventi.
Aggiungo le parole di Hannah Arendt suggeritemi da Daniele Barbieri: "La manifestazione del vento del pensiero non è la conoscenza; è l'attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto".

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