La passione e la scienza, nei ricordi di un astronauta. A Villacidro con Umberto Guidoni

Non ricordo quando ho iniziato a presentare libri. So solo che mi piace farlo, per almeno due ragioni: mi permette di conoscere persone interessanti e mi aiuta a tenere la mente sveglia. Anche perché implica lo sforzo di porre domande non banali (dopo aver letto con attenzione) da cui tentare di ricavare risposte ancor meno banali.
Ieri ho avuto il piacere di porre alcune domande a Umberto Guidoni, in compagnia di Paolo Maccioni. Eravamo a Villacidro, ospiti del XXIX premio Dessì. L'astronauta ha presentato il suo ultimo libro, Viaggiando oltre il cielo, e noi ci siamo divertiti a intervistarlo. Ecco una breve sintesi.
Villacidro, 19 Settembre 2014. Da sinistra a destra: A. Mameli, U. Guidoni, P. Maccioni
Negli sport estremi, che rappresentano quanto di più vicino al lavoro dell'astronauta, gli allenamenti sono in grado di preparare nella maniera più aderente possibile le prove reali. Il viaggio nello spazio, invece, riserva qualche sopresa?
«La preparazione è lunga e in fondo sappiamo cosa ci aspetta, ma in realtà non tutte le situazioni di una missione spaziale si possono provare prima. Quando si va nello spazio secondo me ciascuno registra sensazioni molto personali, diverse da una persona all'altra. La prima cosa è l'altezza: sul nostro pianeta la viviamo poco, come se fossimo quasi in due dimensioni, mentre nello spazio viviamo in un ambiente realmente tridimensionale.»
Quali esperimenti si possono condurre in orbita?
«L'assenza di peso consente di condurre esperimenti scientifici importanti e osservazioni più banali. Ad esempio la fiamma di una candela e la goccia di un qualsiasi liquido sono sempre di forma sferica. Inoltre mancando il rimescolamento dell'aria è indispensabile utilizzare i ventilatori, altrimenti si potrebbe restare uccisi dalla propria anidride carbonica.»
Nel corso della missione TSS-1R del 1996 tentaste di produrre energia elettrica per mezzo di una gigantesca dinamo. L'esperimento riuscì ma il cavo si spezzò. Che cosa resta di quell'esperienza?
«Il satellite al guinzaglio, tethered, mostrò la possibilità di sfruttare la legge di Faraday utilizzando il campo magnetico terrestre, un cavo lungo 20 chilometri e il movimento dello Shuttle. Abbiamo generato qualche chilowatt e la corrente elettrica arrivò veramente fin dentro lo Shuttle. L'esperimento migliorò le conoscenze dell’elettrodinamica dei cavi flessibili, ma si verificò la rottura del cavo a 19,7 chilimetri di distanza dallo Space Shuttle, quindi solo un km prima dell'obiettivo prefissato: 20,7 km. Il rivestimento isolante del cavo di rame, spesso appena 2 millimetri, si ruppe e diede origine a un corto circuito: la vera causa della rottura del cavo. Ci sentimmo come un bambino a cui sfugge di mano un palloncino e lo vede volare via. Il satellite andò a stabilizzarsi 70 km sopra di noi poi scese di orbita e un mese dopo si distrusse nel rientrare in atmosfera.»


Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 20 Settembre 2014

P.S. Un ringraziamento particolare a Paolo per avermi trascinato a Villacidro, ieri sera. E a Umberto Guidoni per aver risposto a tutte le domande sulla sua straordinaria esperienza, con accuratezza e simpatia (anche durante la cena).


Commenti

Anonimo ha detto…
Grazie a te Andrea, serata memorabile!
Paolo Maccioni

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