Le mie immagini annullano i limiti di spazio tempo (L'Unione Sarda, 9 giugno 2009)
Le Olimpiadi del mondo dell’arte, secondo il New York Times. La migliore Fiera del mondo, per Le Monde. Con queste credenziali Art 40 Basel, in programma a Basilea dal 10 al 14 giugno, offrirà una panoramica mozzafiato tra pittura, disegno, scultura, installazioni, video e fotografia. A Basilea saranno ospiti 300 tra le principali gallerie d’arte provenienti da Africa, America Latina, Asia, Europa, Nord America. Oltre 2.500 artisti in mostra: dai maestri dell’arte moderna all’ultima generazione di stelle emergenti. Tra queste una fotografa nata in Sardegna ma residente a New York: Maria Antonietta Mameli. Una carriera artistica fulminante l’ha portata in meno di quattro anni a esporre in prestigiose gallerie newyorkesi (Bruce Silverstein Photography), a partecipare a esposizioni internazionali (Art 39 Basel, 2008; Paris Photo 2007 e 2008) e a raccogliere lusinghiere recensioni (The New Yorker).
Il segreto del successo risiede in un fortissimo desiderio di rappresentare la realtà allontanandosi da essa, ricostruendo con l’apparato fotografico un percorso di rivalutazione delle forme e delle proporzioni. Le figure ritratte vengono estratte chirurgicamente dal loro contesto in dimensioni ridotte come viste dal punto di osservazione elevato dal quale sono state riprese per poi essere inserite in un non spazio ideale infinito. L’artista presenta una rappresentazione dello spazio reale e l’osservatore lo interpreta, secondo la propria realtà e cultura, ovvero il proprio cervello. Gli stili originali inizialmente appaiono incomprensibili e stravaganti, poi divengono parte del comune linguaggio visivo, infine sono accettati come mezzo di comunicazione.
Quando Maria Antonietta Mameli descrive la sua creatività sembra uno scienziato attento a non inquinare l’oggetto delle sue osservazioni, anche se non nasconde le emozioni che prova: «Quando fotografo mi distacco completamente da quello che ho intorno. Quanto al mio stile: nel cancellare il contesto nel quale ho scattato ho voluto rimuovere ogni possibile elemento di distrazione in modo da focalizzare la mia attenzione e quella dello spettatore su corpi minuscoli ma visibili in ogni minimo piccolo dettaglio, come se fossero osservati al telescopio. Così ho anche voluto eliminare ogni possibile riferimento a spazio e tempo nel quale le fotografie sono state scattate. I miei soggetti sono fatti non solo di forme visibili, ma anche di ombre. Le forme e le loro ombre, interconnesse in maniera inestricabile, sono per me come corpo e anima. Nel ridurre la dimensione dei miei soggetti ho poi voluto forzare l’osservatore ad avvicinarsi a loro non solo fisicamente, ma emotivamente».
Ma com’è iniziato tutto?
«Quando avevo cinque anni mi piaceva giocare con la Polaroid di mia madre», racconta. «La fotografia è sempre stata dentro di me. Tutto è cambiato quattro anni fa quando acquistai una vecchia Nikon FE2 con la quale scattai il mio primo rullino in bianco e nero in un fine settimana nevoso a New York. Una sera passeggiavo a Central Park quando la mia attenzione fu catturata dalla luce che colpiva una pista di pattinaggio. Il movimento dei pattinatori e delle ombre che li inseguivano mi ipnotizzò. Quella sera e i giorni seguenti scattai centinaia di foto, poi andai a stamparle: quella pista di pattinaggio era diventata ai miei occhi una rappresentazione teatrale del ciclo umano della vita e della morte».
ANDREA MAMELI
Il segreto del successo risiede in un fortissimo desiderio di rappresentare la realtà allontanandosi da essa, ricostruendo con l’apparato fotografico un percorso di rivalutazione delle forme e delle proporzioni. Le figure ritratte vengono estratte chirurgicamente dal loro contesto in dimensioni ridotte come viste dal punto di osservazione elevato dal quale sono state riprese per poi essere inserite in un non spazio ideale infinito. L’artista presenta una rappresentazione dello spazio reale e l’osservatore lo interpreta, secondo la propria realtà e cultura, ovvero il proprio cervello. Gli stili originali inizialmente appaiono incomprensibili e stravaganti, poi divengono parte del comune linguaggio visivo, infine sono accettati come mezzo di comunicazione.
Quando Maria Antonietta Mameli descrive la sua creatività sembra uno scienziato attento a non inquinare l’oggetto delle sue osservazioni, anche se non nasconde le emozioni che prova: «Quando fotografo mi distacco completamente da quello che ho intorno. Quanto al mio stile: nel cancellare il contesto nel quale ho scattato ho voluto rimuovere ogni possibile elemento di distrazione in modo da focalizzare la mia attenzione e quella dello spettatore su corpi minuscoli ma visibili in ogni minimo piccolo dettaglio, come se fossero osservati al telescopio. Così ho anche voluto eliminare ogni possibile riferimento a spazio e tempo nel quale le fotografie sono state scattate. I miei soggetti sono fatti non solo di forme visibili, ma anche di ombre. Le forme e le loro ombre, interconnesse in maniera inestricabile, sono per me come corpo e anima. Nel ridurre la dimensione dei miei soggetti ho poi voluto forzare l’osservatore ad avvicinarsi a loro non solo fisicamente, ma emotivamente».
Ma com’è iniziato tutto?
«Quando avevo cinque anni mi piaceva giocare con la Polaroid di mia madre», racconta. «La fotografia è sempre stata dentro di me. Tutto è cambiato quattro anni fa quando acquistai una vecchia Nikon FE2 con la quale scattai il mio primo rullino in bianco e nero in un fine settimana nevoso a New York. Una sera passeggiavo a Central Park quando la mia attenzione fu catturata dalla luce che colpiva una pista di pattinaggio. Il movimento dei pattinatori e delle ombre che li inseguivano mi ipnotizzò. Quella sera e i giorni seguenti scattai centinaia di foto, poi andai a stamparle: quella pista di pattinaggio era diventata ai miei occhi una rappresentazione teatrale del ciclo umano della vita e della morte».
ANDREA MAMELI
L'Unione Sarda, pag. 47, 9 giugno 2009
Commenti