Che rapporto c'è tra Pubblicità e Scienza?
Questa è la domanda che ci siamo posti io e Fabrizio.
E da questa domanda è nato il seminario che abbiamo proposto
il 9 novembre 2017 al
Cagliari FestivalScienza.
Nella sua storia la pubblicità ha sempre usato la reputazione connessa con alcune professioni o organizzazioni o categorie di pensiero, per dare forza al suo messaggio.
Nel 1938 la rivista scientifica British Medical Journal pubblicò la lettera di un lettore, intitolata “Science in Advertising”, nella quale si criticava con forza l’uso di termini medico-scientifici a scopo pubblicitario.
Chi predispone una campagna pubblicitaria ha bisogno di dare
spessore al suo messaggio inserendo parole e immagini legate in grado di
fornire un supporto di autorevolezza scientifica. Per evitare un uso scorretto di queste parole e di queste immagini sono state
adottate regole severe: scienziati e medici ‘veri’ non potevano fare
pubblicità, ma era vietato anche l’uso di camici, ambienti di lavoro,
strumenti che richiamavano troppo da vicino la ricerca scientifica e il
mondo scientifico e medico-sanitario. Questo costrinse i pubblicitari a
rappresentare in modo creativo ciò che non era possibile mostrare
direttamente. Ma non fu mai imposto alcun limite all’utilizzo della
parola ‘Scienza’ o di termini scientifici.

Qualche paletto, in Italia, lo impone
il decreto legislativo n. 145 del 2 agosto 2007 (emanato in attuazione dell'articolo 14 della direttiva 2005/29 della Comunità Europea che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole), che definisce come
pubblicità qualunque forma di messaggio che sia diffuso,
nell’esercizio di una attività economica, allo scopo di promuovere la
vendita o il trasferimento di beni mobili o immobili, oppure la
prestazione di opere e servizi. Secondo questo decreto
la Pubblicità deve essere: veritiera, riconoscibile e non ingannevole.
Il decreto legislativo 145/2007 classifica la pubblicità come
ingannevole quando è in grado di indurre in errore o quando è idonea a ledere un concorrente.
La sentenza numero 5000 del 2011 del Consiglio di Stato afferma: "La pubblicità è ingannevole se induce il consumatore in errore o lo confonde influenzando la sua libera scelta".
Una pratica commerciale è scorretta quando, in contrasto con il principio della diligenza professionale, falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta.
Le prariche scorrette fioccano. E non da oggi.
Un esempio che abbiamo portato è quello della
Red Bull, condannata per pubblicità ingannevole in Usa e in Italia e per l’uso improprio di reportistica medico-scientifica a supporto dei presunti ‘benefici’ della bevanda.
Chi ha fatto causa indicava la mancanza di
supporto scientifico delle affermazioni “mettere le ali” e “dare la carica” che darebbero ai
consumatori l’impressione, solo apparente, di ricevere un rafforzamento psico-fisico.
Nel 2009 l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha definito scorretta la diffusione di un pieghevole “Red Bull – energy drink” che promuoveva il consumo della bevanda anche per fronteggiare stati di sonnolenza alla guida, utilizzando espressioni quali “il compagno di viaggio ideale per chi percorre lunghi tragitti” e “se gli occhi si chiudono e la strada verso casa sembra interminabile, è ora di ascoltare un po’ di buona musica ritmata e rinfrescare la mente con una lattina di Red Bull". L’Autorità, anche in considerazione del ravvedimento operoso del professionista, il quale aveva cessato la distribuzione dei volantini, ha applicato una sanzione amministrativa pecuniaria di 80 mila euro.
Al FestivalScienza abbiamo mostrato un altro caso in cui era coinvolta la Red Bull: dopo l'intervento dell'Autorità Garante il messaggio contenuto nel sito è stato modificato:
Un caso più recente riguarda il pronunciamento del TAR del Lazio (del 3 gennaio 2017) secondo il quale è legittimo il provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che ha inflitto a ditte produttrici di
chewing gum una sanzione per pratica commerciale scorretta, per i messaggi promozionali incentrati sui benefici salutistici derivanti dal consumo degli stessi, specificamente per l’igiene orale e dentale: antitartaro, anticarie e antiplacca.

Messaggi che sembrano suggerire una sostanziale equivalenza dell’uso delle gomme da masticare pubblicizzate rispetto all’utilizzo dello spazzolino e del dentifricio e all’intervento del dentista, senza fornire adeguato sostegno con prove scientifiche.
Un altro esempio molto suggestivo, di cui abbiamo parlato il 9 novembre, riguarda lo spot della Land Rover in cui si parla di "una
variante genetica, nota come
DRD4-7R, presente in una persona su quattro, nota comunemente con il nome di
Gene dell’Avventura: la variante rende le persone curiose, vogliose di andare oltre i confini e, se possibile, ancora più lontano".

Lo spot è molto bello e il gene esiste davvero, ma realtà complesse come la alla curiosità e il desiderio di avventura non si possono ridurre a un singolo gene.
Lo spiega molto bene
David Dobbs in un articolo pubblicato nel 2013 su
National Geographic Italia: L'inquietudine dei geni: "in effetti esiste una mutazione genetica di cui si parla spesso quando
si affrontano questi temi: è una variante del gene DRD4, che serve a
controllare la dopamina, un neurotrasmettitore prodotto dal cervello che
ha un ruolo importante nei meccanismi dell’apprendimento e della
ricompensa. La variante, di cui è portatore circa il 20 per cento degli
esseri umani, si chiama DRD4-7R, e diversi studi la associano alla
curiosità e all’irrequietezza."
Il 9 novembre abbiamo concluso ricordando che in pubblicità è lecito avvalersi di dati scientifici solo se veritieri. Sembra banale, eppure non sempre accade.
Violare questa condotta è profondamente scorretto: si tratta di una presa in giro che in qualche caso può determinare conseguenze spiacevoli.
Chiunque può
richiedere l’intervento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per segnalare casi di pubblicità ingannevole e pratiche commerciali scorrette.
In fondo la pubblicità quando ci emoziona e ci tocca nel profondo può influenzare le nostre scelte. Per questo un pizzico di consapevolezza, razionale, non guasta.
Andrea Mameli, blog Linguaggio Macchina, 10 novembre 2017