Matricola 33825. La storia di Virgilio Bidotti, sopravvissuto a Dachau.

Virgillio Bidotti, nato nel 1913 a Ilbono, in provincia di Nuoro, fu arrestato dai nazisti a Verona il 20 Settembre 1943. Due giorni dopo varcò il cancello del campo di concentramento di Dachau.
Qui sotto pubblico una foto di quel cancello, che scattai nel dicembre 2013.
E da quel cancello Virgilio Bidotti uscì con le sue gambe il 29 Aprile 1945.

Ringrazio il Centro di Aggregazione Sociale di Ilbono per avermi fatto scoprire la storia di Siu Virgiliu
 
Dachau, il cancello di'ingresso [Foto: Andrea Mameli, Dic. 2013]


«Mi chiamo Virgilio Bidotti, sono nato a Ilbono il 4 aprile 1913, e dal settembre 1943 all’aprile 1945 sono stato internato per oltre un anno e otto mesi nel campo di concentramento di Dachau, a circa 20 km da Monaco di Baviera. Dachau fu il primo campo di concentramento fatto costruire dai tedeschi e in assoluto uno dei più grandi e disumani. Fui catturato il 20 settembre 1943 a Verona, a dodici giorni dall’armistizio, firmato dal governo italiano con gli alleati Anglo – americani. L’ufficiale che stava a capo del mio battaglione rifiutò di collaborare con l’esercito nazista, perché questo avrebbe significato combattere contro altri soldati italiani: il nostro commando di oltre 400 uomini fu perciò messo agli arresti e portato a Dachau.
Già durante il viaggio in treno verso la Germania ci rendemmo conto della crudeltà disumana dei nazisti, che non tolleravano il minimo accenno a proteste e ribellioni, ed uccidevano brutalmente e senza alcuna pietà chiunque di noi osasse ribellarsi ai loro ordini. In una stazione nei pressi del Brennero, ad esempio, alcuni prigionieri tentarono di evadere mentre il treno che li trasportava era fermo, nascondendosi sotto il treno stesso, fra i binari; ma i nazisti se ne accorsero e fecero spostare il treno a marcia indietro, per così travolgere e uccidere brutalmente i malcapitati.
La nostra prigionia fu durissima: vestiti con una leggerissima divisa e con ai piedi un paio di zoccoli malconci (sia d’estate che d’inverno, quando la temperatura raggiungeva anche i 40 gradi sottozero), eravamo costretti a svegliarci alle 5 del mattino e a lavorare per dodici ore al giorno, sotto il costante controllo degli aguzzini nazisti, che non tolleravano che parlassimo tra di noi o che riposassimo anche solo per un istante. I pasti erano tre al giorno: un po’ di the caldo al mattino, rape, cavoli o patate sia a pranzo che a cena.
Ognuno di noi doveva imparare a memoria il proprio numero di matricola in tedesco, che era appuntato sulla divisa di ciascuno. Chi non riusciva a ripeterlo correttamente veniva picchiato a sangue. Il mio numero era il 33825, il mio simbolo era un triangolo di colore rosso con una lettera “I”, che indicava che ero un Internato Militare Italiano. Ebbi qualche difficoltà a pronunciarlo solamente il primo giorno di prigionia, ma dopo le violenze che fui costretto a subire (pugni, calci, manganellate) imparai presto le cinque cifre.
I detenuti morivano a migliaia, a causa della fame, delle malattie e delle infezioni o delle percosse che erano costretti a subire. Una sera, nella nostra baracca andammo a dormire in una ventina, ma solo cinque di noi si risvegliarono al mattino: gli altri erano morti durante la notte. Gettammo i cadaveri di questi, secondo l’abitudine quotidiana, fuori dalla finestra: all’esterno di ogni baracca, al mattino, si presentava il macabro spettacolo dei mucchi di cadaveri che altri detenuti, armati di tridente, caricavano su camion che poi uscivano dal lager.
Solo al momento della liberazione mi resi conto di quale fine facessero quei cadaveri, perché ne vidi centinaia, ormai ridotti a scheletri, accatastati davanti ai forni crematori, di cui solo in quel momento appresi l’esistenza.
Quando gli americani liberarono il lager, molti dei miei compagni sopravvissuti, in preda a una gioia irrefrenabile, si lanciarono di corsa verso l’uscita del campo e molti di loro si gettarono sul filo spinato, ancora percorso dall’alta tensione: almeno centocinquanta fra essi rimasero fulminati.
Al momento dell’arresto pesavo 72 kg; quando Dachau fu liberato, il 29 aprile 1945, ne pesavo 32, e la mia pelle era arrossata per la fame, il freddo, i maltrattamenti subiti. Dopo la liberazione, fui tenuto in quarantena perché nelle mie precarie condizioni di salute non avrei potuto affrontare il viaggio di ritorno a casa; potei quindi rivedere i miei cari solamente il 5 giugno 1945.
Io e mia moglie abbiamo avuto cinque figli e tanti nipoti, che ci hanno consentito di vivere una vita felice. Ma l’esperienza che ho vissuto a Dachau mi ha segnato per sempre, non ho potuto mai dimenticare lo spavento e il terrore che provai lì dentro. Qualche volta i miei figli mi hanno fatto domande sulla mia prigionia, ma solo negli ultimi anni ho raccontato loro qualche episodio, senza entrare troppo nei dettagli. Credo che comunque sia giusto che tutti vengano a conoscenza delle cose che sono avvenute a Dachau, in modo che si possa evitare che si ripetano. Non potrò mai perdonare i nazisti per quello che hanno fatto a tanti miei compagni di prigionia, e credo che per tutto ciò che hanno fatto non siano stati puniti come meritavano.»

Virgilio Bidotti fotografato a Ilbono il 27 Gennaio 2007

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