I robot del nostro quotidiano (L'Unione Sarda, 15 aprile 2006)
Il Golem plasmato nel fango. I robot della prima fantascienza, il cyborg, tutti affondano le radici nel mito dell’automa malvagio cui si ispirò nel 1818 anche il Frankenstein di Mary Wollenstonecraft Shelley, il moderno Prometeo, appunto. Un mito nato forse insieme a quegli automi del teatro greco come gli uccelli in grado di cantare grazie alla pressione dell'acqua di Hero d'Alessandria (285-222 a.C.). Quanto alla parola robot pare derivi dal gotico “arbi”, da cui anche il tedesco “arbeit” (lavoro) e il ceco “robota” (schiavo o lavoratore forzato). Il Robot comparve per la prima volta nel 1912 in RUR: Rossum's Universal Robots, romanzo di Karel Kapek pubblicato nel 1917 in Cecoslovacchia. Ma parlare di robot e di fantascienza significa affrontare un tema molto reale e concreto: quanto la tecnologia ha inciso sul nostro quotidiano.
Ne abbiamo parlato con Edoardo Boncinelli, docente di Biologia e Genetica all’Università San Raffaele di Milano e membro del Comitato di consultazione strategica del parco scientifico della Sardegna, Polaris. Il suo recentissimo saggio, L’anima della tecnica, (Rizzoli, 168 pagine, 10 euro) sarà presentato il 29 maggio ad Alghero (facoltà di Architettura dell’Università di Sassari) da Silvano Tagliagambe. Boncinelli fu tra i primi, nel 1985, a capire che le nuove scoperte sullo sviluppo genetico del moscerino della frutta (la Drosophila melanogaster, oggi uno degli organismi più studiati) potevano essere estese allo studio degli esseri umani e con il suo gruppo di lavoro ha individuato e caratterizzato una famiglia di geni che controllano il corretto sviluppo del corpo, dalla testa al coccige, considerata una delle scoperte fondamentali di tutta la biologia del secolo scorso.
Quale modello di uomo si prospetta per i prossimi decenni?
«La tecnica ha cambiato il nostro modo di vivere, a volte potenziando le nostre facoltà mentali, altre il corpo. Difficile fare previsioni a lungo termine. Per il momento possiamo immaginare un uomo che si avvale sempre più di strumenti individuali e collettivi per usare il cervello e la forza non per mansioni di piccola importanza ma per creare e per concepire grandi progetti».
Oggi invece sembra che le macchine non siano più, solo, fuori di noi ma in noi. È d'accordo?
«Effettivamente nella fantascienza, dalla seconda guerra mondiale in poi, si è immaginato che le macchine potessero acquisire una loro individualità, una loro progettualità ed eventualmente rivoltarsi contro di noi. Molte previsioni non si sono realizzate, come la dipendenza dal progettista. Questo pericolo è stato scongiurato e ora abbiamo macchine sempre più piccole, quasi invisibili e sempre più potenti. Sono talmente piccole da stare nell’orecchio, nell’occhio nel cervello».
Nel libro lei traccia una storia del rapporto tra uomo e tecnica. Perché parla di tecnica e non di tecnologia?
«In anni più recenti l’affermarsi della scienza ha fatto pensare che la tecnica fosse figlia della scienza, quindi tecnologia, ma in realtà è accaduto il contrario: prima di ogni altra cosa l’uomo si è avvalso di strumenti, quindi la tecnica ha anticipato di gran lunga la scienza».
Se un alveare, un termitaio, una diga costruita dai castori, un nido di rondine sono considerati strutture naturali, perché non anche quelle create dall'uomo e chiamate artificiali?
«Consideriamo naturali quelle strutture che sono messe in atto spontaneamente e in maniera ripetitiva. Non c’è creazione, non c’è vero cambiamento tra un alveare e un altro, tra una diga e un’altra. Invece l’uomo provvisto di certe strutture e di certi istinti si è inventato in maniera originale e non ripetitiva la costruzione di tutta una serie di marchingegni».
Lei dopo la laurea in Fisica, nel 1966, ha intrapreso una brillante carriera in Biofisica. Oggi è la disciplina che traina di più, come numero di iscritti e come prospettive di lavoro?
«Consideriamo naturali quelle strutture che sono messe in atto spontaneamente e in maniera ripetitiva. Non c’è creazione, non c’è vero cambiamento tra un alveare e un altro, tra una diga e un’altra. Invece l’uomo provvisto di certe strutture e di certi istinti si è inventato in maniera originale e non ripetitiva la costruzione di tutta una serie di marchingegni».
Lei dopo la laurea in Fisica, nel 1966, ha intrapreso una brillante carriera in Biofisica. Oggi è la disciplina che traina di più, come numero di iscritti e come prospettive di lavoro?
«La Biologia in tutte le sue branche si è imposta a livello mondiale. C’è ancora tanto da fare, c’è bisogno dei cervelli migliori. Personalmente incoraggerei i giovani a incamminarsi su questa strada. In particolare la Neuro biologia, cioè la scienza del cervello e del sistema nervoso, e la Bioinformatica che è un bellissimo ponte tra biologia e teoria dell’informazione».
Andrea Mameli
Ne abbiamo parlato con Edoardo Boncinelli, docente di Biologia e Genetica all’Università San Raffaele di Milano e membro del Comitato di consultazione strategica del parco scientifico della Sardegna, Polaris. Il suo recentissimo saggio, L’anima della tecnica, (Rizzoli, 168 pagine, 10 euro) sarà presentato il 29 maggio ad Alghero (facoltà di Architettura dell’Università di Sassari) da Silvano Tagliagambe. Boncinelli fu tra i primi, nel 1985, a capire che le nuove scoperte sullo sviluppo genetico del moscerino della frutta (la Drosophila melanogaster, oggi uno degli organismi più studiati) potevano essere estese allo studio degli esseri umani e con il suo gruppo di lavoro ha individuato e caratterizzato una famiglia di geni che controllano il corretto sviluppo del corpo, dalla testa al coccige, considerata una delle scoperte fondamentali di tutta la biologia del secolo scorso.
Quale modello di uomo si prospetta per i prossimi decenni?
«La tecnica ha cambiato il nostro modo di vivere, a volte potenziando le nostre facoltà mentali, altre il corpo. Difficile fare previsioni a lungo termine. Per il momento possiamo immaginare un uomo che si avvale sempre più di strumenti individuali e collettivi per usare il cervello e la forza non per mansioni di piccola importanza ma per creare e per concepire grandi progetti».
Oggi invece sembra che le macchine non siano più, solo, fuori di noi ma in noi. È d'accordo?
«Effettivamente nella fantascienza, dalla seconda guerra mondiale in poi, si è immaginato che le macchine potessero acquisire una loro individualità, una loro progettualità ed eventualmente rivoltarsi contro di noi. Molte previsioni non si sono realizzate, come la dipendenza dal progettista. Questo pericolo è stato scongiurato e ora abbiamo macchine sempre più piccole, quasi invisibili e sempre più potenti. Sono talmente piccole da stare nell’orecchio, nell’occhio nel cervello».
Nel libro lei traccia una storia del rapporto tra uomo e tecnica. Perché parla di tecnica e non di tecnologia?
«In anni più recenti l’affermarsi della scienza ha fatto pensare che la tecnica fosse figlia della scienza, quindi tecnologia, ma in realtà è accaduto il contrario: prima di ogni altra cosa l’uomo si è avvalso di strumenti, quindi la tecnica ha anticipato di gran lunga la scienza».
Se un alveare, un termitaio, una diga costruita dai castori, un nido di rondine sono considerati strutture naturali, perché non anche quelle create dall'uomo e chiamate artificiali?
«Consideriamo naturali quelle strutture che sono messe in atto spontaneamente e in maniera ripetitiva. Non c’è creazione, non c’è vero cambiamento tra un alveare e un altro, tra una diga e un’altra. Invece l’uomo provvisto di certe strutture e di certi istinti si è inventato in maniera originale e non ripetitiva la costruzione di tutta una serie di marchingegni».
Lei dopo la laurea in Fisica, nel 1966, ha intrapreso una brillante carriera in Biofisica. Oggi è la disciplina che traina di più, come numero di iscritti e come prospettive di lavoro?
«Consideriamo naturali quelle strutture che sono messe in atto spontaneamente e in maniera ripetitiva. Non c’è creazione, non c’è vero cambiamento tra un alveare e un altro, tra una diga e un’altra. Invece l’uomo provvisto di certe strutture e di certi istinti si è inventato in maniera originale e non ripetitiva la costruzione di tutta una serie di marchingegni».
Lei dopo la laurea in Fisica, nel 1966, ha intrapreso una brillante carriera in Biofisica. Oggi è la disciplina che traina di più, come numero di iscritti e come prospettive di lavoro?
«La Biologia in tutte le sue branche si è imposta a livello mondiale. C’è ancora tanto da fare, c’è bisogno dei cervelli migliori. Personalmente incoraggerei i giovani a incamminarsi su questa strada. In particolare la Neuro biologia, cioè la scienza del cervello e del sistema nervoso, e la Bioinformatica che è un bellissimo ponte tra biologia e teoria dell’informazione».
Andrea Mameli
L'Unione Sarda, 15 aprile 2006, Cultura
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