Il fotografo e il medico. Eroi dell’era nucleare


Il 10 agosto 1945 Yosuke Yamahata fu incaricato dal comando militare nipponico di fotografare una città bombardata. Non era un evento raro, di quei tempi, ma la distruzione che restò impressa in quelle foto aveva qualcosa di
eccezionale. Del resto erano passati solo tre giorni dalla distruzione di Hiroshima e pochi giapponesi sapevano cosa stava succedendo. Yosuke Yamahata attraversò a piedi Nagasaki in lungo e in largo, per 8 ore di fila. E nel primo pomeriggio consegnò 117 scatti.
Quel Torii, il portale del tempio scintoista, che si staglia sopra la sterminata distesa di macerie è diventato uno dei simboli della devastazione atomica.
Il nome della bomba al plutonio fatta esplodere 2 minuti dopo le 11 del 9
agosto era “Fat Man” (“Ciccione”) in base alla regola non scritta secondo la
quale più la bomba era distruttiva e più il suo nome deve essere spiritoso.
I suoi effetti furono devastanti: 73.884 morti, 74.909 feriti, 1.929 dispersi, come recita il bollettino di guerra defininivo, pubblicato dopo 5 anni.
Esistono molte altre storie di eroismo, legate alla tragedia di Nagasaki, che è giusto non dimenticare. Come quella di Takashi Paolo Nagai, il medico radiologo giapponese noto come il Santo di Urakami, dal nome del quartiere in cui visse dopo che la bomba gli rase al suolo la casa e gli uccise la moglie. Il dottor Nagai per i successivi 58 giorni si dedicò totalmente alla cura dei sopravvissuti. Nel 1949 gli fu conferita la cittadinanza onoraria della città di Nagasaki. Morì a 43 anni, nel 1952, a causa della leucemia contratta per la copiosa esposizione ai raggi X senza alcuna protezione, in quei giorni frenetici di diagnosi e cura dei feriti. Ventimila persone assistettero al suo funerale.
Le fotografie di Yosuke Yamahata racchudono una forza comunicativa enor-
me (non a caso gli Stati Uniti vietarono la loro pubblicazione per 7 anni): nel 1995 la televisione di stato giapponese riuscì a scovare alcuni sopravvissuti di Nagasaki proprio grazie agli scatti di Yamahata. E altri sopravvissuti riemersero dall’oblio dopo che fu mandato in onda il video documentario realizzato con quelle interviste.
A distanza di anni è giusto chiedersi perché fu presa la decisione di far esplodere l’atomica su due città giapponesi. Innanzitutto bisogna sottolineare che il bersaglio è stato cambiato in corso d’opera, dato che il progetto Manhattan era stato pensato per contrastare il programma atomico della Germania nazista: in origine le bombe non erano destinate al Giappone. La tesi ufficiale è che gli Stati Uniti avevano il dovere di impartire una severa lezione all’impero nipponico allo scopo di accelerare la fine della guerra. Ma se è vero che l’imperatore del Giappone era pronto alla resa già da qualche settimana, allora far esplodere la bomba su Hiroshima fu inutile, e ripetere la prova su Nagasaki lo fu ancora di più. Non sarebbe bastato condurre altri test nel deserto del New Mexico?
La motivazione più realistica, che non fu mai ammessa ufficialmente, è che serviva provare bene le bombe più distruttive mai costruite e quindi un solo test non era sufficiente. Una seconda motivazione è che le esplosioni atomiche sul Giappone furono ordinae per vendicare Pearl Harbor. Ma vi è, forse, un terzo motivo: mostrare al mondo la potenza delle nuove armi non era sufficiente a impressionare i potenziali nemici. Era necessario dimostrare di essere in grado non solo di avere un arsenale midiciale, ma di non avere scrupoli a usarlo contro la popolazione civile.
Leo Slizard, lo scienziato ungherese che convinse Albert Einstein a scrivere al presidente Roosevelt la lettera con la quale si incoraggiavano gli Usa a far prima dei tedeschi nella corsa all’atomica, dopo la fine della guerra fu molto severo nel giudizio. E scrisse: «Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro lo avremmo definito un crimine di guerra, e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norimberga. E li avremmo impiccati».
Questa storia, come tutta la vicenda che ruota intorno al progetto Manhattan, segna un punto di svolta nella storia della scienza. Da quelle due esplosioni, ha scritto Pietro Greco nel libro "Hiroshima. La fisica conosce il peccato" (Editori Riuniti, 1995), non è più possibile per i fisici trascurare gli aspetti etici della propria ricerca e gli effetti sulla società e sul mondo.
La storia del bombardamento di Nagasaki è una storia di dolore e di oblio.
Da quel 9 luglio più di 70.000 cittadini hanno sofferto e sono stati uccisi dagli effetti delle radiazioni. Non è giusto dimenticare questa storia, che viene quasi sempre posta in secondo piano rispetto a quella di Hiroshima. Nel tenere viva la memoria un grande merito spetta ai sopravvissuti, gli hibakusha, le cui testimonianze hanno avuto e in qualche modo hanno tuttora un’importanza notevole. In fondo, se questo sacrificio può esser stato utile forse è proprio come deterrente: siamo sicuri che la guerra fredda sarebbe rimasta tale anche senza le due atomiche sul Giappone?

Andrea Mameli 

(articolo pubblicato nell'inserto Estate del quotidiano L'Unione Sarda il 10 Agosto 2013)


Torii. Nagasaki, 10 Agosto 1945. Foto: Yosuke Yamahata.

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